Una Le Mans di quindici anni fa

testo e foto di David Tarallo

Per essere a tuo agio a Le Mans – non parlo del pubblico, parlo degli addetti ai lavori della stampa – ti ci vogliono anni. Puntualmente mi sento dire: “ah ma Le Mans dura una settimana, la gara dura ventiquattro ore, ne hai di tempo”. Falso. Falsissimo. Se c’è un evento in cui hai costantemente l’acqua alla gola è la 24 Ore di Le Mans. Il tempo è misurato e se sgarri sei finito: non recuperi più. Il venerdì, ad esempio, sembra non esserci nulla. Non c’è nulla in pista. In realtà è la giornata delle conferenze stampa e degli incontri in cui puoi parlare con un minimo di agio con chi vuoi. Poi nel pomeriggio c’è la parata e per evitare il traffico devi partire dalla sala stampa con un congruo anticipo. E così via.

Le Mans è faticosa. Per andare a far foto ad Arnage ti partono due ore, con i media-shuttle che devono attraversare in diagonale tutto l’interno della pista. Se piove, col fango, ci metti anche di più. Passi per una specie di foresta e a un certo punto vedi in lontananza delle case e anche un campo da golf. Poi speri che prima o poi qualcuno passi a riprenderti.

L’organizzazione è essenziale, come essenziale è avere un programma il più preciso possibile. Chi ci va da più anni sa benissimo cosa è essenziale e cosa no, e perché.

Cercando alcuni documenti sono saltate fuori delle foto dell’edizione 2008 di Le Mans. Quindici anni fa, sembra ieri. Già all’epoca un po’ di dimestichezza con l’ambiente ce l’avevo. Vi propongo qualche ricordo inedito, tanto la gara la conoscete, con la Peugeot che arrivò per vincere e con l’Audi che alla fine più furba e strategicamente più preparata, riuscì a uccellare le 908.

Proprio con Peugeot avevo un impegno lavorativo. La rivista per la quale collaboravo doveva impaginare ogni giorno del weekend di gara un pdf destinato ai dipendenti della filiale italiana. Il sito della rivista, poi, doveva porre particolare attenzione sull’evento, con un massimo di informazioni inedite e interessanti. Ok. Eravamo in due (io giornalista, più un fotografo) per fare un lavoro per cui quelli di Dailysportscar erano in cinque. Un inferno. Il computer rigurgitava di foto da ridurre, di pdf, di comunicati stampa che si affastellavano nella posta e di bozze di articoli più o meno lunghi da giocarsi nel corso di una giornata. Passava il fotografo e mi buttava una scheda piena, ne rimetteva una nuova e se ne andava. Almeno lui si divertiva. Avevo vissuto la Formula 1 in quel modo e l’endurance non era minimamente più accattivante. Ero come un monaco in clausura forzata mentre altri vivevano nel modo più adatto la gara. Diciamo che tutto ha un senso se viene adeguatamente retribuito. In quel caso avrei fatto meglio a chiedere a qualche collega più scafato prima di accettare di vuotare il mare col secchiello per quattro lire.

La gara, quindi, mi passò accanto, per così dire. Ma quello che non ammazza ingrassa e fu l’occasione di centrare meglio i miei obiettivi per il futuro, mentre la redazione in Italia impazziva di stress e nervosismo. “Guarda, facciamo così: per allenarti a fare i pallini per il pdf, scrivine alcuni di prova. Poi dopo metti giù quelli definitivi”. Certo. Oppure: “ecco un esempio di cosa potresti mettere: nelle libere è stata l’occasione per scoprire il diverso colore degli specchietti delle Peugeot 908”.

Le Mans però era sempre Le Mans. La sera del sabato apri la porta della sala stampa e ti investe l’aria fredda e il boato del rettilineo. Almeno sei lì. L’organizzazione modello Armata Brancaleone fece alcuni danni, come la dimenticanza di annullare la manutenzione del sito dalle 6 alle 10 della domenica mattina! In redazione erano così preoccupati di fare un buon lavoro che non solo non capivano cosa stessero facendo loro, ma davano anche istruzioni contraddittorie quando non palesemente irragionevoli. A un certo punto si scoprì che il rito non riproponeva in automatico nell’archivio le notizie inserite fra le novità, così per un attimo provarono a suggerirmi di scriverle (e caricarle) due volte. Foto comprese. Indovinate cosa venne loro risposto.

La Peugeot perse e io fui l’unico contento. Fu una bella edizione. Com’era Le Mans quindici anni fa? Diciamo che aveva già perso una parte di quell’essenza selvatica che l’aveva contraddistinta almeno fino ai primissimi anni duemila. La parata dei piloti era ormai un’istituzione, gli inglesi arrivavano ancora in massa (si festeggiava tra l’altro il mezzo secolo della Lola), i danesi pure e quindi l’alto tasso alcolemico era garantito.

Il bello era che in Peugeot Sport nessuno sapeva di noi. Quindi niente hospitality, niente vantaggi, niente contatti privilegiati. Dei fantasmi che dovevano lavorare come gente in carne ed ossa. Se sei fantasma, per lo meno ti spetta vivere da tale. Per fortuna, in periodi precedenti ero entrato abbastanza in confidenza con Jean-Claude Lefebvre, responsabile della comunicazione di Peugeot Sport (l’aveva scelto Todt, suo grande amico dai tempi dell’Ecole des Cadres). Dopo un paio di puntate al bar Michelin in fondo alla sala stampa, era in grado di passarti dritte che nessuno dei giovani burocrati-tecnocrati dell’ufficio stampa avrebbe mai potuto o voluto condividere con te. Evviva gli anziani.

Mi sentivo dentro un frullatore e non in quanto lama-coltello ma in quanto carota. Per fare pace con me stesso e con la redazione, a un certo punto decisi di fregarmene completamente delle direttive, rispondendo sempre sì a tutte le domande, a quelle sensate come a quelle prive di logica (che poi erano la stragrande maggioranza). Il vero problema è che dalla cabina di regia volevano fare troppo e si sentivano moralmente obbligati a rendere il doppio di quanto si chiedeva loro, cosa che quasi mai è garanzia di successo. “Crack under pressure”, per parafrasare una famosa pubblicità di un orologio di fine anni ottanta, con Ayrton Senna come testimonial.

Fu una Le Mans vivace, piena di personaggi. Venne a trovarci in sala stampa Yōjirō Terada, un autentico mito. Più che giapponese sembrava napoletano. Lo abbiamo visto poi spessissimo a Le Mans, anche dopo il ritiro.

Le Hawaiian Tropic alla loro ultima apparizione (o una delle ultimissime) a Le Mans. Una sorta di ossessione per chi a Le Mans non c’è mai stato. Posso assicurarvi che se durante l’estate fate due passi in centro a Firenze ne trovate a centinaia migliori di quelle. Se non altro, chi di dovere è stato bravo ad alimentare il mito. Del resto c’è chi ritiene Danica Patrick la donna più bella del mondo.

A proposito di donne, oggi nell’endurance i MDF parlano a più non posso delle tre Iron Dames, della Floersch – che se n’è andata, ma era per rendere l’idea -, della Doriane Pin e della Wadoux. Ragazze molto brave oltre che affascinanti (almeno tre o quattro delle cinque citate). Quindici o vent’anni fa potevi incontrare Vanina Ickx – indimenticabile la sua performance a Silverstone nel 2005 con la Dallara-Judd – o un’altra pilota che forse molti hanno dimenticato ma che come personalità e versatilità poteva far pensare un po’ alla Sabine Schmitz: sto parlando di Amanda Stretton, nata nel 1973 a Londra, che in quel periodo pilotava una Lola di LMP2. Nel 2008 la sua unica esperienza a Le Mans non fu fortunata, con la recalcitrante B06/10 motorizzata AER ferma ai box mentre gli altri passavano e ripassavano. Io per vicina di casa vorrei avere la Stretton e non la Patrick.

Poi andavi verso il centro di Le Mans e ti capitava di incrociare Marco Werner, Lukas Luhr e Mike Rockenfeller, così come se nulla fosse. Probabilmente potrebbe accadere ancora oggi. Le Mans è particolare anche per questo.

C’è un fenomeno per il quale tutti gli anni a partire dal 2000 sembrano molto più vicini di quanto non lo siano in realtà. Sarà per il cambio di millennio. O forse perché ad un certo momento della vita il tempo si mette a darsela a gambe. Meglio non pensarci.

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