testo e foto di David Tarallo
Lo scorso 9 giugno, il venerdì della 24 Ore di Le Mans, FIA e ACO hanno annunciato, in una conferenza stampa tenutasi presso il circuito, il calendario 2024 del WEC. Si tratta di una serie di eventi piuttosto diversa da quelle degli ultimi anni, che vede l’arrivo di paesi nuovi come il Qatar (dove si svolgerà anche il prologo) e l’abbandono di circuiti che avevano caratterizzato il campionato come Sebring. E’ un calendario stravolto, quindi, che tiene conto di esigenze economiche che in queste ultime due stagioni sono sicuramente cambiate non poco. Ora nel FIA-WEC sono presenti costruttori in grado di influenzare le scelte logistiche dell’organizzazione, che peraltro ha interesse a portare il campionato in paesi dove l’auto è ancora considerata uno status symbol e dove la narrazione green non ha ancora fatto presa, al netto di accordi con circuiti “storici”, con i quali sono stati stipulati accordi pluriennali (vedi Spa-Francorchamps). Per quanto riguarda l’Italia, Imola sostituirà Monza a causa di lavori improrogabili ma il WEC dovrebbe poi tornare in Lombardia dal 2025, mentre Imola riprenderà l’ELMS.
A qualche ora di distanza dalla conferenza stampa FIA-ACO (giusto il tempo del fuso orario Parigi-Miami), l’IMSA ha inviato un comunicato dove si ribadiva che l’edizione 2024 della 12 Ore di Sebring sarebbe stata interessante come non mai, arricchita da una serie di gare di supporto e di iniziative che sarebbero state rese note in autunno.
Sebring è sparita dai radar del WEC, a vantaggio del Circuit of the Americas (COTA) in Texas. Un evento in Nord-America era necessario, ma la convivenza con la pista della 12 Ore si interrompe qui e non è neanche una sorpresa. Per anni il WEC nel paddock dell’IMSA ha fatto la figura dell’ospite indesiderato (del cane in chiesa, come si direbbe a Firenze), relegato in fondo al piazzale e non solo per motivi puramente organizzativi. La tensione fra le due associazioni, sia a livello sportivo sia a livello di comunicazione è spesso stata tangibile. Nel 2024, tanti saluti, e ognuno andrà per la propria strada.
Il calendario del WEC ha ormai assunto una portata realmente intercontinentale, con conseguente aumento dei costi. Da un lato è un segno di crescita e di prestigio, dall’altro è un segnale di pericolo tanto più preoccupante quanto non mancano i casi storici che raccontano di epiloghi tutt’altro che gloriosi. L’endurance non è la Formula 1, che è sempre (o quasi sempre) vissuta di calendari elefantiaci e debordanti: già negli anni ottanta-novanta i GP erano meno ma si correva ovunque. Il WEC è nato dalla Le Mans Series, che si contentava di un mix più che ragionevole di circuiti facilmente raggiungibili dalla maggior parte dei team. Per gli altri, c’erano l’American Le Mans Series, l’Asian Le Mans Series e compagnia cantata. Ogniqualvolta l’endurance ha cercato di scimmiottare la Formula 1, è la Formula 1 ad averne goduto le conseguenze.
Altra nota abbastanza allarmante, le dichiarazioni su chi potrà partecipare alla festa e chi invece dovrà restarsene a casa: sul taglio della LMP2 a partire dal 2024 la decisione era ormai presa (anche se a Le Mans quindici posti continueranno ad essere riservati alle LMP2 in rappresentanza di tutte quelle serie ACO che ancora le ammettono al via, dall’European Le Mans all’IMSA). Sulle GT3, che dall’anno prossimo sostituiranno definitivamente le LMGTE, ACO e FIA precisano che la selezione dei costruttori terrà anche conto di chi già partecipa in Hypercar con le proprie vetture. Quindi, ovviamente, Porsche, Ferrari ma forse anche Lamborghini o BMW. Non c’è abbastanza spazio in GT3 per tutti gli altri, specialmente ora che le LMP2 spariranno senza essere completamente compensate dal numero delle nuove Hypercar in arrivo? Fatto sta che certe dichiarazioni programmatiche di “esclusività” e di “selezione” non hanno mai portato bene al campionato.
In questo periodo il WEC gode di eccezionale salute. La Ferrari ha vinto a Le Mans dopo cinquantotto anni, ci sono Toyota, Porsche, Peugeot, Cadillac come altre case ufficiali e altre ne arriveranno. Ma – come ho già detto – l’endurance non ha lo stesso DNA della Formula 1, dove i team storici restano per decenni. Nell’endurance si arriva per un programma di qualche stagione: fai esperienza, diventi competitivo, vinci e te ne vai. Un’eccezione potrebbe essere Toyota, che è ininterrottamente presente dal 2012, ma in questo caso altri fattori hanno giocato a favore di questa longevità (accordi con l’ACO, la possibilità di vincere finalmente indisturbati alcune edizioni della 24 Ore di Le Mans, la prospettiva di arrivare primi nello sviluppo della nuova Hypercar e così via). Per il resto, come sempre, l’endurance è un gigante con i piedi d’argilla, e tale resta anche ora che tutto ciò che tocca diventa oro.


Intanto l’IMSA, come al solito, ragiona diversamente. I regolamenti tecnici delle LMDh che corrono in America sono grosso modo simili a quelli che regolano il WEC, a parte qualche piccolo dettaglio. Ma l’IMSA le LMH non le vuole. Certo, così facendo per il momento perde la possibilità di vedere una Ferrari vincere la 24 Ore di Daytona o la 12 Ore di Sebring, ma la sensazione è quella che negli Stati Uniti si voglia evitare uno sviluppo incontrollato per privilegiare la stabilità e la continuità. E non è escluso neanche che in tempi relativamente brevi il FIA-WEC si sbarazzi delle LMDh (scomode per alcuni aspetti) e faccia tutto in proprio, causando una scissione già vista nel passato.


Insomma, pur col sole che splende (anzi, proprio per questo) non è male fermarsi un momento a riflettere per evidenziare potenziali derive che in altre epoche sono riuscite a rompere un bel giocattolo. E’ la balcanizzazione, come l’ha chiamata Janos Wimpffen, il vero nemico storico dell’endurance. Una balcanizzazione che spesso è stata la conseguenza dell’illusione di rendere la categoria un prodotto mediatico con le stesse caratteristiche commerciali della Formula 1.
