testo e foto di David Tarallo
Dieci anni nell’automobilismo possono essere tanti o pochi. Come fu la 24 Ore di Le Mans 2013? Ripubblichiamo un articolo apparso su Paddock dell’epoca, corredato da foto inedite.
L’interpretazione della 24 Ore di Le Mans 2013 può essere duplice: da una parte, leggendo la classifica, ci si potrebbe convincere che la Toyota abbia fatto un passo avanti rispetto al debutto dell’anno scorso, riuscendo ad insinuarsi fra le Audi, tormentate da qualche problema di troppo. Un secondo e un quarto posto delle TS030 a spezzare una potenziale tripletta, per una vettura relativamente ancora giovane, non è un risultato da buttar via. Ma il responso finale, letto senza le necessarie spiegazioni, rischia di ingannare sul reale andamento della gara e su come l’Audi abbia ottenuto il suo 12° successo a Le Mans su 14 partecipazioni. Riassumendo molto, la vittoria dei tedeschi non è mai stata in discussione, anche se è indubbiamente positivo il fatto che la Toyota abbia portato in fondo entrambe le vetture, che nel passato avevano terminato solo gare di 6 ore. E così, Tom Kristensen diventa sempre più “mister Le Mans”, con 9 primi posti, un primato che ben difficilmente potrà essere battuto. Allan McNish, per parte sua, si rifà delle recenti delusioni, conquistando il suo terzo successo, mentre Loïc Duval, per la gioia dei francesi, si presenta come l’ennesima conferma giovane (almeno per gli standard dell’endurance), a testimonianza di quanto l’Audi ci veda lungo nella scelta delle nuove generazioni da affiancare ai piloti più anziani. Certo, viene quasi automatico pensare che a Le Mans ha vinto la macchina che fino all’anno scorso era quella del nostro Dindo Capello, ma questa è un’altra storia. Resta il rammarico di non vedere più un pilota italiano a bordo delle Audi, dopo il cambiamento del programma di Bonanomi. Duval, in ogni caso, è stato quasi sempre il più veloce dei suoi compagni di equipaggio, nel giorno in cui la fortuna ha abbandonato il trio Lotterer/Fässler/Tréluyer, alla fine quinti dopo un guasto all’alternatore, una foratura e un altro inconveniente al pedale del freno, mentre la terza Audi, quella di Gené/Di Grassi/Jarvis, è stata ritardata ad inizio gara da una foratura al ponte Dunlop e senza quel tempo perso avrebbe potuto forse dire la sua per la vittoria finale. E siccome le auto le guidano i piloti, sarebbe ingiusto non citare l’ottima prova di un Oliver Jarvis, costante e redditizio, e di un Lucas di Grassi, che quasi sempre ha dimostrato di possedere la velocità dei migliori.







Più in generale, l’Audi ha costruito questo successo del 2013 sulla base di una performance nettamente superiore alla Toyota, che probabilmente aveva puntato a migliorare i consumi sacrificando un po’ le prestazioni, una scelta che è risultata sbagliata, anche in considerazione delle molte neutralizzazioni nel corso delle 24 ore. Penalizzate a priori dal regolamento che le assegna 18 litri di carburante in meno, le R18 e-tron quattro potevano percorrere 10 giri per ogni rifornimento, contro i 12 delle Toyota. Ciò si è tradotto, per la vettura di testa, in un totale di 34 soste ai box, mentre la migliore delle due Toyota, quella di Davidson/Buemi/Sarrazin, si è fermata 30 volte, ma in generale le soste delle Toyota sono durate più a lungo. Alla vigilia della gara, questo gap a svantaggio dell’Audi sembrava poter dare alla Toyota una qualche speranza, a patto di mantenere su 1”4 lo svantaggio rispetto R18. Cosa che non si è verificata, e l’Audi è riuscita a girare quasi sempre sui tempi che dalle simulazioni erano risultati quelli giusti per tenere a debita distanza la Toyota. Un vantaggio sul giro di un secondo e mezzo o poco più avrebbe assicurato una relativa tranquillità e forse i tedeschi ci avrebbero messo la firma per ottenere un risultato di questo tipo, per niente scontato soprattutto col traffico di 56 vetture in pista e con le previsioni meteorologiche che indicavano precipitazioni – peraltro non forti – nel corso della gara. Le cose, poi, si sono messe in discesa per Ullrich e compagni: non solo l’Audi non ha avuto grandi difficoltà a rispettare i tempi delle simulazioni, ma le differenze si sono attestate su valori ancora più ampi. Non per nulla il giro più veloce in gara è stato quello dell’Audi di Lotterer, in 3’22”746, mentre le Toyota non sono riuscite ad andare oltre un 3’25”151 con Davidson e un 3’25”718 con l’altra vettura, classificatasi quinta con Wurz/Lapierre/Nakajima (è stato quest’ultimo a siglare il miglior risultato cronometrico). Le Toyota sono arrivate ad accumulare un gap anche di 4” al giro, troppo per pensare di sfruttare anche minimamente i vantaggi derivanti dal regolamento. Dalla loro, le Toyota hanno goduto di un’affidabilità soddisfacente: la vettura seconda classificata non ha patito in pratica alcun problema, mentre l’altra TS030 ha avuto qualche noia all’alimentazione, oltre ad essere stata rallentata dalla mancanza di benzina, da una foratura e da una toccata a fine corsa.








Resta il fatto che la Toyota non ha saputo mai approfittare dei problemi dell’Audi, ancor meno quando era il momento di attaccare dopo che le vetture #1 e #3 erano state rallentate dai già citati inconveniente. Insomma, da parte della Toyota è mancata la capacità di imporre un ritmo diverso alla gara, di cambiare il corso delle cose, che guarda caso è stata in tante altre edizioni l’arma vincente dell’Audi, e che in passato era mancata anche all’altro illustre sfidante dei tedeschi, la Peugeot. Nel corso dalla gara, resa più complicata dalle irregolari precipitazioni, il team di Wolfgang Ullrich non ha mai perso la calma, riuscendo ad adeguare alle condizioni che cambiavano continuamente tante piccole variabili tecniche e strategiche.








La Toyota lascia Le Mans con un bilancio ampiamente negativo: si dice che per vincere la 24 Ore occorrano almeno tre anni, ma la sensazione è quella che le TS030 non siano progredite al ritmo in cui Pascal Vasselon e Yoshiaki Kinoshita si auguravano. Alla fine del 2012 la Toyota sembrava essersi avvicinata notevolmente all’Audi, che però nel corso dell’inverno ha tirato fuori una vettura del tutto nuova o quasi (il mancato cambio di sigla non inganni), mentre l’evoluzione della TS030, che si è vista solo a Spa, non è mai stata in grado di apportare quel quid in più in termini velocistici. Finita la stagione 2013, sia la R18 sia la TS030 andranno in pensione perché i regolamenti 2014 imporranno la progettazione di vetture completamente diverse. Per battere l’Audi ci vorrà più coraggio, forse più creatività. I maligni dicono che per mettere un po’ di sale sulla coda all’Audi, ci debba pensare lo stesso Gruppo tedesco…










Fra i team privati, non c’è stata praticamente lotta; la HPD-Honda ARX03c di Strakka Racing, pilotata da Leventis/Watts/Kane, sesta assoluta, dietro le Audi e le Toyota, ha condotto una gara regolare tenendosi fuori dalle mischie e approfittando anche delle vicissitudini delle due Lola-Toyota B12/60 Coupé del team elvetico Rebellion. La vettura di Belicchi è stata eliminata da un’uscita di pista quando al volante si trovava proprio l’italiano, che ha riportato un paio di costole fratturate. Alla ripartenza dopo una serie di giri in regime di safety car, Belicchi si è intraversato all’uscita della seconda chicane dell’Hunaudières, andando a finire di muso contro le barriere di protezione.





Classe LMP2
Se si osservava il team OAK nel corso dei preparativi del venerdì mattina, l’intera squadra sembrava rilassata ma decisa, affiatata e soprattutto alquanto sicura dei propri mezzi. Se la differenza la fanno tanti piccoli particolari, le due Morgan-Nissan di punta (cui si aggiungeva la stravagante art-car decorata da Fernando Costa) sembravano di gran lunga le vetture più competitive. E così è stato col team di Jacques Nicolet che ha dominato la gara piazzando un’eccezionale doppietta: primi Baguette/González/Plowman, secondi Pla/Heinemeier Hansson/Brundle. Come sempre la classe LMP2 è stata all’insegna dell’abbondanza (22 partenti) e della varietà tecnica, ma contro le ex-Pescarolo motorizzate Nissan c’è stato poco da fare. Terzo posto (a tavolino per l’esclusione dell’Oreca-Nissan del G-Drive a causa di un’irregolarità al serbatoio della benzina) per la Zytek-Nissan del Greaves Motorsport, pilotata da Jann Mardenborough, Lucas Ordonez e Michael Krumm. Il G-Drive ha annunciato ricorso, ma al di là di questo, due fattori sono emersi dalla classe LMP2 di questa 24 Ore di Le Mans: il dominio dei motori Nissan e delle coperture Dunlop, in una gara in cui le Lola hanno deluso, le Lotus hanno occupato le pagine dei comunicati stampa per ragioni tutt’altro che sportive e le Oreca hanno vissuto alterne vicende, culminate con la squalifica della vettura di Rusinov/Martin/Conway (ma la G-Drive ha fatto appello). Evidentemente a Le Mans il “pacchetto” evoluzione disponibile per la stagione 2013, comprendente modifiche per migliorare l’accessibilità meccanica e per incrementare l’affidabilità e le prestazioni, non si è rivelato troppo utile. Quanto alla Alpine A450 (che per ora altro non è se non un’Oreca 03, condividendo con questo modello tutti gli sviluppi), la prima uscita nel WEC dopo l’esordio nell’ELMS ha fruttato un piazzamento senza infamia e senza lode, ma è chiaro che si tratta solo di un primo passo verso il rilancio di questo storico marchio; è pur vero che il programma di LMP2 sembra essere più che altro un riempitivo da decidersi anno per anno, in attesa dell’arrivo della berlinetta nel 2016.
Le GT
Cronaca di una sconfitta annunciata: nella festa dei centenari (il secolo dell’Aston, i 50 anni della Porsche 911) la Ferrari rischiava di fare la fine del vaso di coccio fra i vasi di ferro e così è stato. Il famigerato balance of performance non dava troppe possibilità alle 458 Italia, penalizzata nella capacità del serbatoio e da vari aggiustamenti del peso e delle flange concessi alla nuova 911 RSR e alla Aston Martin. “Mettiamola così”, affermava Andrea Bertolini alla vigilia della gara: “significa che la Ferrari fa paura”. E così, fra un accomodamento e un altro – e anche un po’ di sana pretattica come quella che la Porsche ha fatto a Silverstone e a Spa per celare le vere potenzialità della 911 modello 991 – la Ferrari non è mai stata in gioco, così come del resto le altre contendenti, dalla Viper alla Corvette. Dei “non-factor”, come direbbero gli inglesi. Tappezzeria. La doppietta della 911 RSR è stata favorita dall’incidente di Makowiecki, che si trovava in testa con la Aston Martin domenica mattina, e da alcuni errori di strategia da parte del team inglese. Al di là di tutto, però, le due 911 RSR ufficiali hanno mostrato un’affidabilità invidiabile, oltre ad un alto livello di prestazioni, favorito dal fatto di poter girare con una configurazione aerodinamica non esasperata, contrariamente alle Ferrari che hanno dovuto compensare con una taratura particolarmente “scarica” delle ali le limitazioni imposte dal balance of performance. Alla Porsche è andata anche la classe Am (Narac/Bourret/Vernay, IMSA Performance); un en-plein che è un ideale viatico per un ritorno in grande stile nel 2014. Le balaustre retrostanti la palazzina dei servizi a Le Mans erano imbandierate con enormi riproduzioni di manifesti commemorativi delle numerose vittorie Porsche alla 24 Ore. “Home is where your heart is” lo slogan scelto per la campagna pubblicitaria di Porsche in questa edizione. “C’est ici que bat notre coeur”, ribadiva la scritta gigante nella lingua autoctona. E niente accade per caso.
Le Mans come nel 2014!
Almeno per le grandi case, il cammino verso Le Mans è costellato di piccole o grandi evoluzioni: da Sebring alle prime prove del WEC l’Audi R18 non ha smesso di cambiare, fino al debutto a Spa della versione a coda lunga e alla comparsa del tanto chiacchierato sistema degli scarichi soffiati. La Toyota, per parte sua, a Spa aveva portato una TS030 in configurazione 2013, e per Le Mans si sono visti tanti accomodamenti che spesso risiedono in particolari che possono sembrare insignificanti e che invece sono in grado di fare la differenza (sarebbe interessante, ad esempio, capire l’esatto motivo per il quale le due TS030 hanno girato ognuna con un airscoop dalla bocca di foggia diversa). E come nel passato, i test pre-gara sono serviti non solo per avere un assaggio di cosa avrebbe offerto la corsa, ma anche di cosa ci riserva un futuro ancora più lontano. I test di Le Mans sono un’occasione troppo ghiotta per non mostrare qualche muscolo alla concorrenza. Ed ecco che ha fatto la propria apparizione una quarta Audi, tutta nera, col numero 4, una vera e propria T-car nel senso tradizionale del termine. Su questa vettura sono stati provati pneumatici ottemperanti al regolamento che andrà in vigore dal 2014: riduzione della larghezza da 16 a 14 pollici e del diametro da 28,5 a 28 (in pratica le misure dell’attuale classe LMP2). E’ quasi sicuro che oltre alle nuove coperture la misteriosa Audi n.4 (provvista di coda lunga come le altre tre) celasse al suo interno alcune nuove soluzioni aerodinamiche in vista della prossima stagione. E tutto questo mentre la nuova Porsche LMP1 muoveva i suoi primi passi sulla pista privata di Weissach.











Business is business
Che l’OAK Racing non fosse un team qualsiasi, magari di quelli ancora semiamatoriali che popolano le liste degli iscritti di classe LMP2 nel WEC, nell’ELMS o nell’American Le Mans Series lo si era capito da un pezzo; la struttura di Jacques Nicolet si è saputa dare un’impronta professionale non solo dal punto di vista tecnico, ma anche sotto l’aspetto della comunicazione e del marketing. Quest’anno l’OAK ha giocato la carta “art-car”, che a Le Mans fa sempre una certa presa. Stavolta la BMW non c’entra niente (ricordiamo che l’ultima vettura della collezione BMW aveva preso parte alla 24 Ore nel 2010, decorata da Jeff Koons). A differenza degli illustri precedenti firmati Alexander Calder, Roy Lichtenstein, Frank Stella, Andy Warhol e compagnia cantata, la vettura schierata nel 2013 nasce da una vera e propria scultura, creata da Fernando Costa saldando insieme – ormai lo sanno anche i muri – innumerevoli frammenti di cartelli e segnalazioni stradali. Quello che si è visto sulla griglia di partenza non è che un simulacro, mentre l’originale faceva bella mostra di sé sotto un tendone nella piazzetta retrostante il paddock. E stavolta, dal concetto è nata tutta una sapiente operazione di marketing: l’OAK Racing ha affittato uno degli spazi coperti, una vera e propria boutique, in buona compagnia fra Rolex e altri marchi celebri.

L’art-car, la Morgan-Nissan numero 45 e la sua stravagante decorazione sono diventate un brand nel volgere di pochi giorni. Mentre Costa tagliava e cuciva divieti di sosta e indicazioni di passaggi pedonali, il produttore franco-cinese Spark lavorava alla realizzazione di una serie limitata di modelli in scala 1:43 e 1:18 da porre in vendita durante la settimana di Le Mans. E con essi, magliette, penne, matite, quaderni, felpe, giacche e quant’altro per un fenomeno che ha dimostrato ancora una volta come l’arte sia anche (e solo?) business. Al confronto Hervé Poulain e le sue BMW colorate erano roba da dilettanti.








Allan Simonsen
Un secco ma chiarissimo comunicato dall’Automobile Club de l’Ouest ha raggelato la sala stampa il sabato pomeriggio. Da allora, come sempre succede, è stata una ridda di ipotesi, di “se” e di “ma”, troppo spesso pronunciati da sedicenti esperti e opinionisti dell’ultima ora che pare non aspettino altro per potersi mettere in evidenza. Oggi la morte è tabù, nella vita di tutti i giorni e nell’automobilismo. Le corse sono a rischio linciaggio e la ricerca della sicurezza è diventata il leitmotiv imperante. L’eliminazione dei rischi inaccettabili ha fatto passi da gigante, ma c’è sempre quello scarto, quella frazione di imponderabilità che quando le velocità sono così elevate presenta un conto salato. Magari nel momento più inatteso. Tutto è perfettibile, e certamente oggi che siamo abituati ai circuiti mikey mouse a rischio zero (?), un circuito come Le Mans dovrà sembrare paradossale a uno di quegli opinionisti improvvisati che all’indomani di un evento tragico come la morte di Allan Simonsen si divertono a sparare sentenze senza aver mai abbandonato la poltrona e le pantofole per andare a vedere cos’è il vero automobilismo. Al di là di questo, si poteva fare di più? Le conseguenze di questo incidente erano davvero inevitabili? Sarebbe forse opportuno assumere un atteggiamento quanto meno critico di fronte a questo tipo di domande. A lato di ciò, tanti dubbi e un dato di fatto: la sempre maggiore urbanizzazione di tutta la zona permettono sempre meno interventi. Questo in generale; in particolare, forse qualcosa in più si poteva fare per rendere più sicuro il punto in cui ha impattato l’Aston Martin del pilota danese. Negli anni la pista di Le Mans si è evoluta, perdendo, secondo molti, parte del proprio fascino. Il lungo rettifilo dell’Hunaudières lasciò il posto, nell’inverno 1989/90, a due chicane, nate nella fretta di trovare una soluzione di un problema che si era probabilmente ignorato troppo a lungo negli anni precedenti, quando ci sarebbe stato tutto il tempo per trovare una soluzione meno traumatica e ugualmente sicura. Da quel momento in poi, le chicane sono state il teatro di clamorosi “botti” (una Bugatti distrutta nel 1994, la Toyota di Brundle nel 1999, la Pescarolo che tira dritto contro il muro nel 2006, la Lamborghini del JLOC che fa la stessa fine un anno più tardi, la Porsche RS Spyder del Team Goh che sbanda sull’olio nel 2009…) ma è anche vero che il tratto di Hunaudières ha cessato di essere letale. Per inciso l’avvento delle chicane ha favorito definitivamente l’avvento dei freni a carbonio anche a Le Mans, quando in Formula 1 erano usati ormai già da tempo. Con l’Hunaudières ancora integro, essi si sarebbero raffreddati troppo rapidamente (50 secondi alla massima velocità) per poi non funzionare in maniera ottimale alla staccata di Mulsanne. Fu Nissan a introdurre la novità, seguita ben presto da tutti gli altri. Con le due chicane finì (almeno in parte) l’incubo della foratura progressiva, quella che ti tradisce perché non te ne accorgi, o della quinta marcia che si rompe magari a mezz’ora dalla fine, ma quella almeno non uccide. L’incidente di Simonsen ha riaperto inquietanti interrogativi su questioni che trenta o quarant’anni fa sarebbero state considerate semplicemente parte del gioco.
