L’altro giorno, andando a ritirare due appassionanti libri di memorie sullo sport automobilistico (quello di Van Vliet è stato recensito su PLIT: https://pitlaneitalia.com/2023/08/03/ma-vie-sur-les-circuits-les-souvenirs-dune-grande-voix-de-la-f1/ ) mi è capitato di aggiungere un bel librettino di Régis Debray, autore che amo molto – vi consiglio ad esempio i Carnets de route, usciti nel 2016 – intitolato L’exil à domicile e edito da Gallimard. Sentirsi ogni giorno un po’ meno appartenente al proprio tempo, sempre più anacronistico: ecco, questa sensazione secondo Debray non presenta esclusivamente degli inconvenienti. Una persona fuori dal suo tempo ha l’occasione di riconsiderare tutto ciò che ha vissuto con occhi diverse, un po’ disincantati, con un sano distacco. D’accordo, può essere anche un modo per accettare una situazione che in certi casi estremi conduce a un’uscita alienata dal mondo attivo per abbracciare una forzata vita contemplativa. Ben vengano quindi questi tentativi stoicheggianti di far tornare le cose, in fondo viviamo di auto-inganni.
Però, per deformazione professionale, ho provato a spostare il quadro verso il nostro microcosmo automobilistico. Tutti noi addetti ai lavori, ma anche i semplici appassionati, stanno vivendo una sorta di spaesamento, alcuni in modo conscio, altri sotto forma di nevrosi. Il discorso qui è molto semplice e coinvolge il senso stesso di ciò che ci ha appassionato per decenni: ebbene, ci siamo occupati per trenta, quaranta, cinquant’anni di cose che stanno passando dall’essere viste con rispetto e ammirazione all’essere considerate quasi criminose. Una volta, quando parlavi con la gente e le dicevi che scrivevi articoli e libri di automobilismo, che avevi corso, che avevi provato in pista auto che l’uomo della strada manco si sognava di notte, venivi non dico invidiato, ma almeno guardato con un po’ di positivo stupore. Oggi, ammesso che capiscano di cosa stai parlando, quasi ti devi giustificare di parlare di auto. Le auto: brutte, rumorose, inquinanti, politicamente scorrette. Un giorno non molto lontano da Youtube spariranno i filmati del BTCC degli anni 70 o della Formula 2 anni 80. Troppe sportellate, troppe ruotate. Troppo rischio, troppo casino. Roba da vecchi cowboy rozzi e ineducati.
Parlando con i giovani di automobilismo quasi ti devi giustificare. “Ah, sì, all’epoca era diverso”. Sì, ed è inutile citare il vecchio adagio di “Strietzel” Stuck che conoscete bene, quindi non è nemmeno il caso di ripeterlo.
Vedete? I libri si richiamano fra loro anche se apparentemente si occupano di tempi molto lontani. Ho trascorso ore di divertimento leggendo i ricordi di Van Vliet ma anche quelli di Jean-Louis Moncet (La Formule 1, ma famille). Con freudiano contrappunto, insieme a loro, è arrivato L’exil à domicile. Hanno un bel dire quelli delle vecchie generazioni: “Che mi importa, la mia vita me la sono vissuta, se tutto deve crollare crolli pure”. Ma anche questa rischia di essere una magra consolazione. Tutti in fondo crediamo di essere eterni e vorremmo che le cose continuassero così come le abbiamo conosciute anche dopo la nostra dipartita. Constatare che il rischio che tutto vada diversamente significa dover accettare l’annientamento definitivo di una parte di noi stessi, quella che ci ha a lungo contraddistinto e identificato. Ed è esercizio da asceti, non da giornalisti.
