Come un manga

testo di Riccardo Fontana / foto di David Tarallo

Il discorso sulla nazionalità dei modelli, che già più volte abbiamo lambito dalle colonne di PLIT (esempio: https://pitlaneitalia.com/2023/10/14/la-nazionalita-dei-modelli-come-anima/) trova un naturale sigillo nell’analisi della produzione giapponese degli anni ’70 e ’80, relativamente soprattutto ai die-cast ma – in parte – riconducibile anche ai kit in plastica, rappresentanti di una cospicua quota della produzione modellistica proveniente dal Sol Levante, probabilmente anche maggioritaria rispetto a quella dei pressofusi in scala ridotta.

La produzione relativa ai pressofusi nipponici si può far risalire essenzialmente a tre grandi case: Tomica, Yonezawa ed Eidai, creatrici di linee di ottimi modelli in scala 1:43 a partire dai tardi anni sessanta, rispettivamente i Dandy, i Diapet, ed i Grip. (Molto rari e di grande qualità costruttiva, oltre che innovativi dal punto di vista della progettazione, furono i prodotti Taiseya, nelle serie Cherryca Phenix e Micro Pet, ndr).

In realtà, la sfera d’influenza di questi costruttori è parecchio più ampia della sola e classica scala 1:43 (pensiamo solo ai Tomica in scala piccola, oppure agli Eidai Grip in scala 1:28) e la stessa stretta osservanza dell’1:43 è stata del tutto aleatoria, con scale dichiarate che spaziavano dall’1:36 all’1:48 secondo logiche di non sempre facilissima comprensione, comunque tutto ciò nulla toglie a questi modelli in termini di importanza e fascino, ed è proprio qui che “rientra dalla finestra” il concetto di nazionalità dei modelli.

Essendo gli automodelli dei manufatti figli del lavoro e dell’ingegno di esseri umani, ciascuno avente usi, consuetudini ed educazione estremamente variegate e dissimili, la fattura di un automodello rispecchia in buona sostanza il “comune sentire” culturale di un paese, fotografando in maniera tutt’altro che ingenua il periodo storico in cui si trova ad essere riprodotto.

I die-cast giapponesi erano, né più né meno, la perfetta trascrizione in scala delle omologhe vetture del Sol Levante dello stesso periodo, ed in questo senso rispecchiavano in pieno le caratteristiche di base della produzione automobilistica giapponese: pochi fronzoli, una solo apparente fattura grossolana, ed una estrema solidità.

Avevano una vaga aria intrisa di manga, quasi che fossero uscite da qualche episodio di Dragon Ball, di Lupin o – nel caso degli Eidai Grip – di qualche fumetto a tema F1, che all’epoca in terra nipponica fiorivano come funghi.

Naturalmente, si trattava di produzioni che raggiungevano il massimo del fascino proprio quando si avventuravano a riprodurre automobile di casa loro, proprio in virtù di questo travaso di mentalità: in questo senso, erano numerose (se non numerosissime) le vetture italiane nei cataloghi Tomica o Yonezawa, ed alcune sono tutt’ora estremamente ricercate (basti pensare alla Icsunonove Dallara o alle 131 Abarth di Tomica, e sono solo i primi esempi che mi vengono in mente) ma si trattava comunque di riproduzioni meno rigorose di quanto – almeno in tema di 131, perché l’Icsunonove era un inedito assoluto – non proponessero Solido o Luso Toys.

Ecco, questo senso di ingenua approssimazione quasi giocattolesca osservando ad esempio una Mazda RX-7 Diapet non si avverte, o si avverte in maniera molto più sfumata.

Ad ogni paese il suo modello, dicevamo, e ciò comunque non vuole sminuire le “italiane del Sol Levante”, che sono comunque degne di essere collezionate e conservare in quanto figlie di un mondo molto più vario e meno tristemente appiattito sui mega-service cinesi di quello odierno, mega-service che ormai hanno in mano almeno il 95% della produzione modellistica mondiale.

Con i kit in plastica, invece, si ridesta l’altro lato della cultura nipponica, quello principalmente riconducibile all’estrema ed incondizionata esattezza di riproduzione, con la miniaturizzazione perfetta di ogni più singolo componente di un’auto o di una moto, il tutto ingegnerizzato in modo tale da rendere agevole il montaggio a chiunque, dal modellista di capacità ed esperienza comprovata fino all’amatore profano e tutto pollici che, a meno della verniciatura e della posa delle decals (in cui purtroppo serve quantomeno pazienza e buonsenso) non avrà il minimo problema a ricavare ottime cose da scatole solo apparentemente complicatissime.

Vedere una qualunque moto Tamiya in scala 1:12 per credere.

Come al solito, la sensibilità è fondamentale per apprezzare un modello, ed è fondamentale svilupparne abbastanza per essere in grado di immergersi in storie e atmosfere che, tutto sommato, possono fare da balsamo al grigiume quotidiano che ci circonda.

Una opinione su "Come un manga"

  1. Apprezzo e condivido in larga misura quanto scritto, tra l’altro il mondo nipponico ha sempre esercitato su di me un grande fascino, pur se modellisticamente non lo conosco bene, tutt’altro…
    facendo una doverosa eccezione per i celeberrimi kits Tamiya (con alcuni di loro mi cimentai più volte, quand’ero ragazzo). Ho sempre desiderato che Tamiya si dedicasse anche alla produzione di kits in scala 1/43… un mio sogno nel cassetto, eh eh!

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