Dipendenti

di Antelope Kopler

Uno dei tanti problemi – forse il principale, comunque il più stringente – tra i molti che attanagliano l’Italia è il lavoro.

Di certo qualcuno starà pensando alla solita sviolinata sulla disoccupazione, sulla mancanza di lavoro, sulla crisi sempre più irreversibile che morde come una belva sul mercato del lavoro e, di conseguenza, sulla società dello Stivale, con tutte le ovvie conseguenze sociali che ne derivano, nessuna delle quali affrontabile a cuor leggero.

Ebbene, no.

Non troverete nessuna arguta considerazione o soluzione preconfezionata sull’operato del governo o della Confindustria tra queste righe, ma piuttosto una sana, serena, e per certi versi naturale – almeno per chi certe problematiche le vive e le sente proprie – fotografia della condizione di chi un lavoro, autonomo o dipendente che sia, ce l’ha.

Il riquadro della fotografia non può che essere legato ai ritmi intrinsechi del lavoro nel nostro paese: inumani, avvilenti, tali da relegare tutti i “criceti” partecipanti al gioco ad entrare in una ruota che, passo (svelto) dopo passo (svelto) porta ad un’esistenza completamente totalizzante, in cui non si dispone più di nessun momento e di nessuna energia per coltivare passioni o relazioni, diventando nient’altro che idioti funzionali al sistema.

Non farò illazioni riguardo alle motivazioni di questo circolo esistenziale infernale, motivazioni che potrebbero andare da un’eccessiva tassazione che flagella tutto il tessuto sociale dalla A alla Z restituendo poco o nulla in cambio fino ad una – probabile – stronzaggine mista a servilismo ed autocommiserazione che permane chi più chi meno tutti gli esponenti della “razza italica”, ma la fotografia è questa, rimane questa, e cercare maldestramente di negarlo non conduce a nulla.

L’accettazione è il primo passo verso la soluzione d’altronde, non è vero?

Appurato questo, occorre distinguere tra due macro-categorie di lavoratori, che sono inevitabilmente costituite dai lavoratori dipendenti e dagli autonomi, imprenditori o “semplici” liberi professionisti che siano, e qui la cosa cambia, e di parecchio.

Per introdurre il tema – in verità tutt’altro che facilmente approcciabile – mi permetto di portare una testimonianza “semi-personale”: mio padre, nel tardo 1976, era un ragazzotto di poco meno di ventitré anni tornato da pochi mesi dal servizio di leva, aveva un ottimo diploma tecnico in tasca (in informatica, uno tra i primissimi) ed in attesa di trovare la sua strada sbarcava il lunario facendo il carrozziere assieme ad alcuni amici.

Gli piaceva molto, contribuiva a preparare anche delle macchine da corsa (124 Abarth e addirittura una Stratos) e tutto sommato sarebbe volentieri andato avanti a farlo, senonché ad ottobre arrivò la chiamata del maggior gigante mondiale dell’informatica di allora: l’***.

Difficile dire di no, e pronto arrivò il consulto con suo padre – mio nonno – circa il da farsi.

Mio nonno, reduce di El Alamein e molto pratico come tutti i vecchi, gli fece un discorso al limite dell’ineccepibile, che più o meno suonava così: “devi capire tu cosa vuoi fare: se vuoi magari guadagnare un po’ di più ma non avere ferie, non avere feste, e non poterti ammalare allora vai pure avanti a fare il carrozziere, ma se vuoi stare un po’ più “tranquillo” e sicuro vai di corsa all’*** a fare il dipendente”.

Detto fatto, il Vecchio andò in *** e ci restò fino alla morte, avendo tutto sommato una buona vita e potendosi togliere qualche sfizio, con una corrente dose di tempo libero ed un buonissimo equilibrio tra vita privata e vita lavorativa.

Oggi questa realtà e questi precari equilibri non esistono più: i dipendenti hanno delle tutele sociali sempre più fittizie (grazie Renzi, complimenti vivissimi) e vivono con ritmi imposti che non hanno nulla da invidiare a quelli degli imprenditori veri e propri.

Ci si trova invischiati in riunioni nel weekend, in mail inviate a ridosso della mezzanotte – cui, se non si risponde “flash”, si viene etichettati a fancazzisti ed isolati dal resto del gregge – ed in situazioni totalmente, oscuramente ed  irrecuperabilmente deliranti, come essere chiamati ed invitati in riunioni in teams mentre ci si sta svegliando da un’anestesia totale per un’operazione ad una gamba con ancora il “raviolo” in bocca ed i brividi (ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti eccetera eccetera).

E tutto questo forse per qualche strana ed altolocatissima (e remuneratissima) posizione? Assolutamente no: per un posto da impiegato ordinario, con una paga ordinaria in una multinazionale ordinaria.

Con laurea magistrale in saccoccia.

Per spiccioli, in poche parole: svendiamo la nostra vita, i nostri sogni, il nostro più profondo e stimabile essere in cambio di elemosina, la più bassa ed indecente forma di prostituzione concepita dall’uomo, in cambio di promesse di carriera che non si realizzeranno mai, esattamente come quando si promette all’amante di lasciare la propria moglie per stare con lei alla luce del sole, riassumendo al massimo.

Quindi l’oggetto del disquisire è mutato, e va posto in maniera differente rispetto a quanto si poteva fare una cinquantina d’anni orsono: nella situazione e nell’economia italiana del 2023 ha ancora senso fare il dipendente oppure – diventare pazzo per diventare pazzo – è meglio fare da sé sfruttando i propri talenti ammesso di averne qualcuno?

Ho conoscenti che sono “scappati” dal giorno alla notte all’estero – in paesi dell’est Europa dove io non vivrei neanche sotto tortura – e dicono di stare mille volte meglio di quanto non stessero in Italia (e se la nostra qualità della vita è peggiore di quella della Repubblica Ceca, ecco, qualche domanda circa l’imminente implosione del nostro sistema sarebbe lecito farsela), ma francamente non mi pare una soluzione sostenibile: non farò l’immigrato solo perché qualche stronzo possa strumentalizzarmi per i fini più disparati, l’emigrazione è sintomo di disperazione, e non si emigra mai senza poter “sindacare” da un punto di forza, a meno di non essere veramente disperati o di sapere di essere accolti “a braccia aperte” dall’altra parte (l’ultimo caso di immigrato accolto veramente a braccia aperte nel paese di destinazione mi risulta essere quello di Werner Von Braun).

In poche parole, si deve emigrare da signori, non da ladri di galline, quindi l’unica che rimane è fare da me, e le idee non mancano.

Voi decidete pure se volete continuare ad annichilirvi sempre di più ad arricchire il padrone ma – più che altro – il consiglio d’amministrazione di turno, e avere la vostra ordinaria vita fatta di calvizie a trent’anni, compagna ordinaria sempre pronta a darla al macellaio, bambini (del macellaio) con maestra di sostegno e centro commerciale il sabato pomeriggio oppure provare a fare dai voi, e quantomeno poter dire di aver provato a fare qualcosa di diverso e di vostro.

Non tutti ne hanno il coraggio, ma il coraggio è una dote indispensabile per essere liberi.

O, comunque, per essere più liberi.

Così pensava forte un trentenne disperato, se non del tutto giusto quasi niente è sbagliato.

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