Diario di Le Mans, the hard way episodio 4

Devo dire che noi media siamo privilegiati. Hospitality, sale stampa, agevolazioni varie rendono le trasferte non dico facili ma almeno un minimo confortevoli. Da tempo immemorabile non affronto una gara nei panni dello spettatore, né penso che lo rifarò una volta che la mia vicenda professionale sarà conclusa. Però può essere istruttivo e interessante capire cosa sia una gara pesante come la 24 Ore di Le Mans sfidata da semplice visitatore. E se si tratta della prima volta, la cosa può essere ancora più intrigante. Lascio quindi spazio a una serie di scritti di Riccardo Fontana, che pubblicherà una sorta di Diario di Le Mans 2024, a perenne monito per chi vorrà tentare l’avventura… the hard way, come avrebbe detto Perry McCarthy. [David Tarallo]

Innanzitutto, urge ch’io mi scusi con gli amici lettori di PLIT per il ritardo nella preparazione di questi articoli che – più o meno inspiegabilmente ai miei occhi, e comunque a giudicare dai commenti favorevoli – stavano godendo di un certo apprezzamento: purtroppo è un periodo alquanto confuso nella mia vita, diciamp così di cambiamento e riassetto, in cui vorrei fare mille cose ma ho tempo e – soprattutto – energie per farne si e no dieci, quindi portate pazienza.

Rieccoci dunque ai diari di uno spettatore qualunque – che poi sarei io – alla 24 Ore di Le Mans: ci eravamo lasciati dopo una tappa da oltre novecento km macinati per oltre due terzi sulle routes nationales francesi a medie da road racing e col mio svenimento vestito la sera in hotel in quel di Nevers, e da qui ripartiamo.

La notte passa come se fossi morto, uno dei sonni più profondi che abbia mai sperimentato, e solo dei rumori di non meglio specificati traffici verso le cinque del mattino mi scuotono quel tanto che basta a farmi aprire un occhio.

“Mah, sarà Luca che si fa la doccia, ‘sticazzi…”

Resto in uno strano limbo non troppo confortevole ma molto vicino al sonno per un tempo imprecisato, finché non sento bussare alla stanza.

“Cos’è, siamo arrivati a Bastia? (*)”

Mi rendo conto quasi subito che non siamo su un traghetto, non c’è il mozzo di turno che bussa alle cabine per avvisare dell’imminente arrivo nel porto di destinazione, e che fuori piove di gusto: mi alzo per andare ad aprire la porta, e mi si para davanti Luca vestito da runner, completamente bagnato.

“Ma cosa…?!”

“Sono andato a correre”

Resto abbastanza sbigottito.

“Ma… Che ore sono…?”

“Le sette”

“Cioè, fammi capire: ti sei portato la roba per andare a correre nonostante il culo che ci stiamo facendo?”

Risposta lapidaria: “sì”.

Mi arrendo, la ragione è totalmente dalla parte di Luca: sono io che mi sono seduto come un povero stronzo totalmente mangiato da una vita allucinante, in teoria si dovrebbe fare come fa lui.

“Ho fatto sui nove km”.

“Ma piove…”

“Si, lo so”.

Esco dalla roba che ho addosso da ben oltre 24 ore – e che potrebbe agevolmente stare in piedi da sola – e vado a fare la doccia, ed è nientemeno che un sorso di vita: non è allegoria, è veramente la vita che torna a pulsare nelle vene.

Quando sei stanco e sporco e ti fai una doccia alla giusta temperatura è come se il Dio dei temerari improvvisati ti toccasse sulla fronte per darti una possibilità di redenzione, e tu dal canto tuo non chiedi nient’altro, è letteralmente tutto quello che vuoi nella vita in quel preciso momento.

Dopo di me si doccia Luca, e facciamo colazione – abbondantemente – prima di ripartire.

Il clima decisamente plumbeo ci impone di scartare le tute antipioggia e di indossarle – prima volta nelle rispettive vite – per poter coprire i 400 e rotti km che ci separano dall’arrivo a Le Mans: mi sembra di essere un pilota da guerra della Luftwaffe con su questo tutone nero abbondante, ma ben presto mi rendo conto della sua eccezionale efficacia: ti crea un vero e proprio limbo caldo e asciutto attorno, che ti isola completamente dal mondo esterno, ed effettivamente ci vuole.

Non l’avevo mai voluta l’antipioggia: io nasco (grosso) smanettone endurista più che viaggiatore, e ho preso dei temporali terribili – anche sulle montagne – limitandomi a bagnarmi, ma devo ammettere che la tuta sia una mano santa date le circostanze.

Ripartiamo allegri, e proseguiamo a buon ritmo verso Le Mans mentre piove e spiove almeno una decina di volte (c’est le nord, n.d.r.): viaggiamo nelle grandi routes nationales francesi, larghissime e quasi senza traffico, andiamo più lenti del giorno prima, e sono in pace col mondo.

Non ho un lavoro in questo momento, non c’è nessun deficiente semi-analfabeta che mi telefona per tormentarmi con domande sul sesso dei barboncini, e vivo bene, anzi benissimo.

Vedo i cartelli e ne leggo i nomi: Vichy.

Ecco che, come spesso mi accade, parte il libero flusso della mente in autonomia, ed in un tempo in grado di fare impallidire lo 0-100 della Delta S4 mi trascina via, verso chissà dove: penso a Petain ed alla repubblica collaborazionista che qui aveva il suo quartier generale, all’acqua minerale – buonissima – ed alla prima volta che vidi quei cartelli durante il viaggio in Normandia fatto coi miei nel 2002.

Penso alla Ligier – cazzo, anche stavolta non visiterò il museo di Magny-Cours – e mi torna in mente una lettura di oltre dieci anni fa sul vecchio blog in cui Francis Bensignor raccontava di quando era andato alla Ligier a Vichy a prendere le misure della JS-2 per fare il modello Voiture.

Tutto questo in? Mezzo minuto?

Forse anche meno…

Quanto è riposante e ricreativo tutto ciò non lo so nemmeno spiegare, comunque lo è e lo è molto.

Ad un certo punto ci ritroviamo in autostrada come due totani: dovevamo evitare i caselli, ma evidentemente la mente vaga troppo, ed è andata così.

Ora apri l’antipioggia per recuperare il portafoglio…

Passa Luca, paga, e si mette tra due corsie con le quattro frecce ad aspettarmi (ebbene sì, le moto del secondo decennio del nuovo millennio hanno le quattro frecce, giuro che l’ho scoperto in questa circostanza anche se ho il Ténéré da due anni… voglio tornare nel 1985 anche se sono nato nel 1992).

Vedo quattro gendarmi che si avvicinano a Luca da un casotto a lato della stazione, uno in particolare si para venti metri avanti a lui.

“Ahia… Questi sono qui per noi”

Ripasso tutto il complesso di obblighi stradali transalpini per i motard, e non trovo pecche nel nostro abbigliamento ed equipaggiamento, mi tranquillizzo ma non troppo, non si può mai farlo quando si ha a che fare coi flic (**).

Ed infatti, come da previsione, come si alza la sbarra anche per me (ci è voluto un po’, il mio bancomat non piaceva al casello) ecco che l’amico poliziotto ci fa cenno di fermarci, nel parcheggio a 20 metri dopo la stazione.

Ci interroga, in realtà interroga me perché parlo francese e lui non parla inglese, come i suoi colleghi.

Ci spiega che fermarsi appena fuori dalla corsia è molto pericoloso e che chiudono entrambi gli occhi solo perché siamo italiani e siamo giovani, anche perché gli ho spiegato che non abbiamo idea di come funzionino le autostrade francesi, e che ci siamo finiti per sbaglio.

Sono anche loro ragazzi giovani, bravi cristiani: ci lasceranno andare senza fare storie.

Si interessano di cosa ci facciamo lì alle nove del mattino, spiego che stiamo andando a vedere la prima 24 Ore di Le Mans della nostra vita, e qui si illuminano, neanche avessimo nominato un monumento, a riprova dell’importanza che la grande corsa della Sarthe ha per i francesi.

Conversiamo un po’, poi ci salutano e ci lasciano ripartire: dei francesi in Italia se la sarebbero cavata così a buon mercato? Nutro dei seri dubbi, ma l’esterofilia la lasciamo perdere altri momenti.

La giornata prosegue: a circa quaranta km da Le Mans, lungo un viale alberato appena fuori da un centro abitato – dove fortunatamente avevamo appena rallentato – verrò colpito in faccia da un passero che volava attraversando la strada.

Ho un casco jet da enduro vecchia scuola con occhiali e mascherina Scott: è come se uno più grosso di me mi avesse dato un pugno con l’intento di stendermi, ma data la relativamente bassa velocità non cado né mi ferisco, e possiamo proseguire.

Colpire un uccello mi mancava, un’altra cosa da raccontare ai miei figli, se mai ne avrò.

Arriviamo a Le Mans abbastanza presto, e facciamo la conoscenza con Guillaume e la sua famiglia, che ci hanno affittato la mansarda della loro casetta in campagna per il weekend di gara: bravissima gente, simpatica e molto disponibile, vogliono sapere tutto di noi.

Doccia e via in città, e questa volta date le distanze via di “sposta poveri”: ci muoveremo coi mezzi, lasciando i due Ténéré al sicuro in garage nella villetta.

Ora, il sottoscritto Le Mans l’aveva già vista due volte, e sempre in periodi scevri da gare (beccandosi anche la cattedrale per volere di una sua ex, cattedrale si ma Manou Autosport che avrebbe chiuso di lì a due mesi no, e infatti ci siamo lasciati, troppo tardi aggiungerei) : nel weekend della 24 Ore la città sembra letteralmente grande dieci volte tanto.

Ovunque ci sono stand e banchi, e persone che si divertono: c’è il lounge della Cadillac, dove musica e birra scorrono a fiumi.

Penso che gli americani siano ignoranti come dei badili senza manico, e penso che proprio questo sia il loro bello.

Ci concediamo una sontuosa bistecca con le patatine seguita da una ancora più manierata coppa di gelato come solo i francesi sanno fare, e poi rincasiamo.

Domani sarà il giorno più lungo.

Dio, che emozione…

(*) quando si prende il traghetto – nel mio caso era consuetudine fare la tratta Livorno-Bastia – prendendo la cabina, poco prima dell’entrata nel porto di destinazione un membro dell’equipaggio è solito fare il giro delle cabine bussando per svegliare i passeggeri.

(**) Letteralmente “sbirro” o “piedipiatti” in slang francese.

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