Un giorno di tanti anni fa

di Riccardo Fontana

31 agosto 2012.

Non mangio – salvo forse un paio di mele – e non dormo da dieci giorni, faccio ancora fatica a definire l’enorme casino in cui la mia – e fin qui relativamente poco male – e l’altrui esistenza si stanno dimenando, continuo a sperare che sia solo un maledetto di incubo. 

“Massì, è solo un incubo, è solo una cena troppo pesante, adesso mi sveglio e c’è qualche mia compagna universitaria che mi cerca per farsi qualche sana cavalcata, tutto regolare, niente panico”.

Ma non è un sogno, anzi in quei dodici minuti in cui ho dormito negli ultimi dieci giorni ho sognato che mi svegliavo, e l’ho fatto lucidamente. 

Arrivo in neurochirurgia alle 8:20 del mattino, hanno chiamato a casa dicendo che il Vecchio era peggiorato… 

Cosa vuol dire peggiorato? Ma se fino a tre ore fa i medici giuravano sulle loro madri che nel peggiore dei casi avrebbe avuto un anno di vita e, nel migliore, un pieno – o quasi – recupero? Ebbene, mentivano: è ricoverato dal 21 di agosto, e in effetti da allora è peggiorato fino a perdere del tutto la sensibilità nel braccio e nella gamba destra e la parola, il tutto con una velocità spaventosa, ma tutti i dotti non facevano che ripetere come si trattasse solo degli effetti collaterali del mannitolo, nulla di cui preoccuparsi davvero.

Io, più per speranza che per reale e lucida analisi, avevo voluto crederci, ma sotto sotto lo sospettavo che fossero tutte cazzate: il primo giorno di ricovero sono entrato di nascosto in sala medici e ho spiato la cartella clinica: si parlava di masse plurime, di quattro tumori tutti localizzati nell’emisfero sinistro, il più grande con un diametro di 62 mm (il cranio umano, anche nel caso di un essere di uno e novanta, va sui 150 mm di larghezza…), un altro di una quarantina di mm e gli altri due più piccoli, tutti ben cacciati in profondità.

“Non sarò un medico ma qui marca male, molto male”… Però mi dicevo “dai, sapranno quello che dicono, fidiamoci, l’uomo va sulla luna da quarantatré anni, c’è gente che vive con praticamente un emisfero solo e fa anche una vita decente, conserviamo un po’ di ottimismo e vediamo”. 

Invece, adesso, ho la prova che il mio “naso” ci avesse preso in pieno: il Papy, l’omone che… Il migliore amico che abbia mai avuto ieri, oggi, e domani, me lo trovo in coma, intubato. Respira a scatti, come se avesse una manona invisibile che lo massaggia sul petto, come Rudy con Lucky nella Carica dei 101, con la maglietta rossa strappata ancora per terra ai bordi del letto, lasciata lì dai medici che gli hanno fatto il massaggio cardiaco poco prima, quando ha avuto un arresto. Il primario chiama me e la signora madre e ci dice con pochi giri di parole e il tatto di un torturatore nazista che il Vecchio “è un paziente perso”, che “tanto non si sveglierà più” e che “perciò è inutile anche procedere alla biopsia programmata per oggi”, e che “molto facilmente non arriverà a sera”. 

Questo solenne stronzo – perché chiamiamo cose e persone coi loro nomi – parla di mio padre che sta morendo senza nemmeno aver avuto la grazia di sapere come in un modo con cui io non parlerei neanche di un motorino sbiellato. 

Non piango, le lacrime le ho già finite penso il primo o il secondo giorno, ho sempre più difficoltà a capire la benché minima sega di qualunque cosa, che vuol dire “paziente perso”? Com’è possibile che mio padre trenta giorni prima fosse così in salute e senza uno straccio di sintomo da poter fare la strada alta sterrata del Sestriere in moto – con mia madre seduta dietro, oltretutto – e adesso sia in fin di vita con mezzo cervello mangiato da non si sa bene quale mostro infernale? Ho sentito di gente morta in poco tempo per infarti a catena, per ictus, per leucemie fulminanti, per alberi che si rifiutano di spostarsi mentre fai lo scemo in macchina o in moto, ma mai, MAI, M-A-I, per un tumore al cervello fulminante. Non esiste.

Non c’è.

Cercate pure, non c’è, neanche in qualche Argus de la Miniature Hors Série, niente di niente, fidatevi.

Cerco di tornare sulla terra ma sono in una (brutta) galassia davvero troppo distante, entro nella stanza, lo guardo: è bianco come un foglio di carta, ha la pelle degli occhi nera come un panda e trema, attaccato alle macchine, encefalogramma più piatto di un lago salato nello Utah… Sto lì un paio d’ore, ma per quanto mi ricordo potrebbero essere state quattro o mezz’ora, e penso a tutto, a quando avevo due o tre anni e mi portava a vedere il recinto delle mucche d’estate con la moto e poi gli davamo il fieno finché la mamma preparava la cena, con quel sole rosso e quel profumo di buono tipico dei campi nella bella stagione, a quando ci mettevamo fuori a guardare le stelle sul terrazzo in Corsica, a parlare di questo e di quello, del senso della vita e di cazzate fino a fare quasi venire il nuovo giorno. Ripenso anche al giorno prima, quando già senza voce mi aveva guardato e stretto la mano con la mano sana, accarezzandomi le dita mentre lo faceva, o prima ancora, quando continuava a ripetere solo “perché?…”. 

E la prima notte in ospedale, mentre eravamo da soli in quella sala buia da cui mi rifiutavo di uscire, che mi buttò lì a bruciapelo un “potrò ancora fare le impennate con la moto?”, e io che gli dissi “ma tanto te non sei mai stato capace di fare le impennate, quindi se anche non ce la farai più amen”, facendolo scoppiare a ridere – per l’ultima volta – mentre io mi sforzavo di ridere ma morivo dentro.

Tutti i litigi di vent’anni a ripensarci sono una pugnalata secca nel cuore, una di quelle che ti lasciano completamente senza fiato. 

“No, non posso stare qui come uno stronzo, per tardi che sia devo fare qualcosa.”

“Ok, mi avete raccontato un sacco di cazzate ma non ho tempo di prendermela, urge pensare a qualcosa”… Corro a casa e mi attacco a internet (lo smartphone, per me, era di là da venire nel 2012), cerco, cerco, cerco…Serve qualcosa di specializzato, di forte, ma cosa? Eh… Poi forse… “BESTA! CARLO BESTA! Centro Besta, lotta anti-tumori, Milano, fammi prendere il numero!”.

Penso, scrivo, faccio, spero serva a qualcosa, ma il mio cervello mi manda segnali di parere opposto: da sola mi si proietta in testa l’immagine fissa – ed è una storia verissima, non sto romanzando una virgola – della Ferrari di Villeneuve ferma nella sabbia di Zandvoort con una gomma dietro sgonfia, e Gilles che, pur sapendo che è tutto inutile, cerca di tornare ai box con la macchina distrutta per continuare a correre. “Non m’importa, darò retta alla testa quando avrò tentato oltre l’impossibile”. Chiamo il Besta, segreteria. Richiamo. Segreteria ancora. Dopo una quindicina di tentativi mi risponde una donna gentile, cui descrivo (cartella clinica alla mano, neanche tanto con le buone me la sono fatta dare) la situazione: mi dice cosa devo portare ma mi dà appuntamento per l’indomani mattina, visto che ormai, cerca tu che chiamo anch’io, si sono fatte le 17:30… Torno in ospedale, devo farmi dare un CD con le TAC cerebrali, voglio provare ad andare su comunque immediatamente al Besta, e da lì sperare nella fortuna che, come Alessandro Magno c’insegna, sorride agli audaci. “Se solo avessi ascoltato la mia testa qualche giorno fa…”. 

Gilles girato nella sabbia, gomma sgonfia, retro, prima, e via a palla di fucile verso un impossibile rientro ai box su tre ruote. 

Un altro neurochirurgo mi piglia e mi porta in sala medici, decide di vuotare il sacco completamente: vedo la TAC “nuova”, il bastardo più grosso ormai è 70 mm di diametro, è cresciuto di un cm secco in 10 giorni…

 “La tiroide cazzo!” 

“Ecco, vedo che non sei un medico ma che sei sveglio, è ipertiroideo tuo padre, e lo è anche fortemente come sai e come puoi vedere dai suoi 120 kg, e quel “signore” lì due mesi fa era capace di non esserci neanche ai ritmi allucinanti con cui si sviluppa. Poi dieci giorni fa ce n’erano quattro, adesso sono sei, mi dispiace ma…”

Oltretutto la febbre ha iniziato a salire, è sui 40,5…

Rischio di non fare neanche in tempo ad arrivarci al Besta… I meccanici hanno detto a Gilles che la sua T4 non e riparabile e che, per lui, la corsa finisce li. La mia vita si è ribaltata come un calzino nel giro di dieci giorni, e tutto sommato quello è il male minore, perché bene o male io vivo ancora. Ragazze? Musica? Motori? Ragazze sui motori che ascoltano la musica? Anche lo studio stesso se vogliamo? Da centro del mio universo a satelliti sfigati, da ragazzo a uomo in dieci giorni, non lo auguro a nessuno, neanche a chi veramente mi sta sulle palle, e col mio carattere di sterco ce ne sono veramente molti.

Mia madre alle 10 di sera mi spedisce a casa “a cercare di riposare”, non vorrei – perché ho ovviamente sgamato in pieno il vero motivo – ma quasi mi lanciano di peso in macchina: mi faccio promettere di farmi chiamare qualora ci fossero dei peggioramenti.

Piove, piove alla disperata, non c’è nessuno né in ospedale né per strada.

Mi metto sul divano a guardare il Signore degli Anelli, in una stranissima veglia costellata di incubi lucidi, come quando hai la febbre altissima, finché all’una la telefonata arriva, “vieni su subito che il papà è peggiorato”

“Cosa c’è di peggio di così?…”

Ragazzo ingenuo che ero, vero?..

Arrivo in un San Matteo che sembra davvero un deserto, buio e tetro come solo un ospedale nel cuore della notte sa essere, dopo aver attaccato la cornetta del telefono di casa da una decina di minuti, piove che dio ne manda tre…

Mi dicono quello che so già, fine dei giochi.

2 pensieri riguardo “Un giorno di tanti anni fa

  1. Minchia…mi dispiace davvero…mi sono rituffato nel dolore e nell’angoscia che ho provato per i miei.

    Ti capisco, forse. In questi momenti non ci sono parole che possano lenire il dolore ma la condivisione serve alle anime. La mia ora è un po’ più vicina alla tua.

    Abbi la forza.

    Robix

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  2. Mette male dire che mi piace al racconto di una vicenda del genere, ma, cavolo! Non potevi scrivere niente di più bello!

    PS Anche il mio se ne andò improvvisamente e prematuramente quasi 43 anni fa, dopo un malattia grave e debilitante, non quella di tuo padre, dopo che i medici avevano dichiarato che ormai il peggio era passato.

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