Su PLIT ci siamo occupati sempre abbastanza raramente di Western Models, uno dei marchi storici dell’automodellismo britannico. La lacuna è notevole, tanto più che Western ha rappresentato per interi decenni uno dei punti di riferimento per chi necessitasse di stampaggi in metallo bianco di qualità. Sarà quindi opportuno ripercorrere per intero la storia di questo produttore, così com’è stato fatto in passato con altri marchi, dedicandogli una monografia. Intanto, giusto in due righe presentando uno dei modelli classici della gamma, possiamo riassumere dicendo che Western nacque nel 1974 su iniziativa di tre collezionisti, Mike Stephens, Brian Garfield-Jones e Ken Wooton. Dopo un incoraggiante debutto con una Mercedes 540K, Western Models espanse rapidamente la propria produzione di modelli in kit e montati in 1:43 ma anche in 1:24, avviando numerose collaborazioni per lo stampaggio in metallo bianco conto terzi. Il rapporto con Danhausen costituisce sicuramente il capitolo più importante in questo senso. Ritiratisi abbastanza presto gli altri due soci, fu Mike Stephens, insieme alla moglie Joyce, a portare avanti l’azienda, prima fra Redhill e Epsom nel Surrey, poi a Taunton nel Somerset. E’ appena il caso di ricordare come nella Western si formarono tecnici e prototipisti di valore, fra cui John Allen e Keith Williams, che negli anni ottanta fondarono la SMTS a Hastings. Dopo lo spostamento di tutta la produzione di Danhausen in Cina, Western Models fu costretta a un radicale ridimensionamento dei programmi. La gamma Western andò comunque avanti per un bel pezzo. L’attività, ulteriormente ridotta nei primi anni Duemila, chiuse definitivamente nel 2010.
Nell’era degli affastellatori seriali di cineserie, i modelli Western sembreranno inevitabilmente vecchi (o invecchiati). Sia. Però, essi rispecchiano forse più di ogni altro marchio lo spirito britannico del white metal. Fusioni belle robuste, dettagli limitati, niente fotoincisioni, parti nichelate e verniciate: l’effetto è inconfondibile e li pone in linea di diretta discendenza dai Dinky, passando ovviamente per gli anelli intermedi delle prime sperimentazioni artigianali, che gli inglesi stessi amano chiamare “cottage models”, e non c’è neanche da spiegarne il motivo.
Nel 1983, Western Models era forse al suo apogeo, e i modelli che sfornava erano massimamente apprezzati, non solo in ambito britannico ma anche in paesi come la Germania, l’Olanda o il Belgio, che avevano per certi versi una sensibilità simile a quella dei collezionisti del Regno Unito. Alla ricerca di popolarità, i marchi inglesi non esitavano a proporre sempre più vetture del continente, in primis Ferrari, che era un marchio che “tirava” a prescindere. L’idea di tirar fuori la Dino 246 fu valida, anche perché a quell’epoca non è che il mercato offrisse tante alternative: nell’ambito degli speciali, quasi contemporaneamente uscì la giapponese CAM, che era diffusa quanto una mosca bianca e che costava più o meno come la vera. La X-AMR era ancora di là da venire. Chi amava la resina poteva sempre orientarsi sul Record, uscito alla fine del 1982. C’erano poi in giro il Tomica Dandy, piuttosto bellino ma con le caratteristiche tipiche dei diecast dell’epoca, e il Sakura, commercializzato nel 1977, che cominciava quindi già ad accusare il peso degli anni, per non parlare della GTS di Norev, uscita nel 1974 e sfruttata dalla marca francese fino alle barbe, come di costume.






La Dino di Western fu proposta in tutte e due le configurazioni, berlinetta GT e “targa” GTS. Disponibile in kit e montata, la Dino inglese ebbe un buon successo di vendite. Oggi non è un modello raro ma come sempre la difficoltà consiste – per i montati – di reperire un esemplare in condizioni perfette con scatola e imballaggio originali. I modelli factory built della GT dovrebbero essere tutti rossi, mentre per la GTS si scelse il secondo colore più adatto a una Ferrari, ossia il giallo. I contorni vetro non erano dipinti ma in compenso altri dettagli erano trattati con cura. Belle ad esempio le ruote realizzate con una soluzione tipica dell’epoca: cerchio tornito e pastiglia centrale in metallo bianco. Il fondo della vettura presentava alcuni dettagli finemente incastrati al telaio. Di ottimo effetto i quattro scarichi nichelati. Per buona parte degli anni ’80, la Dino di Western costituì una scelta più che decente per chi volesse inserire in collezione quella che ancora oggi resta una delle vetture stradali più belle della storia del Cavallino. Arrivarono poi AMR (con prezzi decisamente più alti, specie per quanto riguardava i factory built), poi negli anni ’90 fu la volta del Dinky-Matchbox e dell’Heco – ai due poli opposti della fascia di prezzo! – per proseguire col Bang, un ottimo modello alla portata di quasi tutte le tasche.






A distanza di tanti anni, però, il Western resta una limpida testimonianza del gusto inglese, che richiede una certa immedesimazione per essere compreso appieno, ma in fondo il bello del collezionismo non consiste anche in una ricerca storica di ciò che si cela dietro ogni oggetto, il tutto accompagnato dalla curiosità e da un pizzico di fantasia?
