Frustrazione anni ’90

Su PLIT ci piace andare contro corrente ma non tanto perché abbiamo la vocazione dei bastian contrari (oddio, forse un po’ sì) ma perché certi temi necessitano di essere considerati da punti di vista diversi per essere pienamente compresi.

Riordinando le tonnellate di materiale cartaceo che come una specie di chiocciola mi porto dietro nelle mie annose peregrinazioni, mi sono saltati fuori dei Four Small Wheels di metà anni ’90.

Gli anni ’90: un periodo forse dimenticato anche nella storia del nostro settore. Del resto anche qui su PLIT parliamo spesso di anni ’70, forse ancora più spesso di anni ’80, ma il decennio successivo resta un po’ nascosto. Non che non sia successo niente, anzi, ma per certi versi rischia di essere considerato ancora troppo recente perché se ne parli in prospettiva storica, o forse viene considerato non abbastanza interessante rispetto alle grandi novità tecniche che gli anni ’70 e ’80 portarono a getto continuo.

Gli anni ’90 furono quelli della definitiva affermazione di marchi premium come BBR, che trovarono la loro collocazione anche internazionale. Nei vecchi numeri di FSW è uno degli elementi che salta agli occhi con maggior evidenza. Continuavano le serie montate più o meno confidenziali, come al solito in Francia, in Italia e in Gran Bretagna, i tre paesi europei maggiormente attivi nell’ambito dell’automodellismo speciale. Arrivarono poi i primi esperimenti di speciali low cost, e questo principalmente in Francia, con Starter ma anche con marchi più piccoli che avrebbero scavallato il millennio, finendo però abbastanza presto, uccisi dall’avvento dei resincast.

I kit godevano ancora di buona salute, anche se la sbornia degli anni ’80 era definitivamente tramontata. Verso metà decennio, Provence Moulage aveva finito per prevalere su Starter, come qualità e quantità, e cosa sarebbe successo di lì a poco l’abbiamo più volte raccontato anche qui. Dalla metà del decennio in poi iniziò a diffondersi una definizione intrigante, forse un po’ esagerata ma che risentiva semanticamente del boom dell’informatica: “multimedia kit”. Era semplicemente un kit che non si accontentava più di tre pezzi in resina, quattro ruote e un foglio di decals, ma che puntava con un certo orgoglio a una maggiore complessità a beneficio dei montatori più bravi o più pazienti. Un esempio classico di questo tipo di prodotto furono i Renaissance, che cavalcavano anche l’attualità, fatta del ritorno in grande spolvero – dopo anni di magra – delle GT nelle gare di durata, prima fra tutti la 24 Ore di Le Mans. Arrivarono poi altri marchi di kit più complessi, come Baymo (un giorno ci occuperemo delle loro belle BMW) e anche alcune realtà nostrane come Gamma ed MG Model provarono a offrire dei prodotti più dettagliati e magari apribili, con risultati anche buoni.

Però il discorso tornava sempre allo stesso punto: la maggior parte di questi modelli era disponibile solo in kit; oppure, le edizioni montate erano difficilissime da reperire, a meno di non essere disposti a sciropparsi migliaia di chilometri all’anno, visitando borse, esposizioni e gare.

Diciamo che il portato degli anni ’80 si era trasferito nel decennio che seguì con problematiche essenzialmente immutate. Anzi, cresceva il numero dei collezionisti che avrebbero voluto fare la raccolta di tutte le vetture di Le Mans dal dopoguerra alla contemporaneità oppure di quelli che iniziavano a interessarsi della 24 Ore di Spa corsa con le turismo.

Ogni collezione notevole nasceva da complicazioni mica da poco. Wayne Moyer, in Inghilterra, era uno dei pochi ad aver messo insieme quasi tutte le auto di Le Mans e la sua raccolta, per un periodo esposta presso Grand Prix Models a St.Albans, destava ammirazione, proprio perché era qualcosa di unico o di rarissimo. Un’ammirazione che andava di pari passo con la frustrazione per l’impossibilità di completare come si sarebbe voluto un qualsiasi percorso collezionistico.

Perché i casi erano due: o eri straricco o avevi la velocità unita alla capacità di un Jean-Paul Magnette.

Le produzioni in kit si moltiplicavano accumulandosi negli armadi. E i BBR montati da 300.000 lire, per quanto bellissimi, erano alla portata di un gruppo di snob che a volte facevano di questi modelli degli status symbol piuttosto che considerarli “il risultato di una passione”, come avrebbe detto Ruf.

A proposito di Ruf, l’atelier ACB prima e l’impresa Le Phoenix poi avrebbero caratterizzato una buona parte degli anni ’90 del lusso.

Torniamo però ai nostri collezionisti un po’ più terra-terra. Loro avrebbero avuto bisogno di una e una sola cosa: Spark. E infatti è ciò che avvenne giusto qualche anno più tardi, perché l’arrivo e il successo di Ripert jr corrisponde esattamente all’individuazione commerciale di un bisogno e alla capacità tecnica e finanziaria di soddisfarlo.

E così oggi non devi impazzire a cercarti la BMW di Spa di Jemmpy. Te la fa Spark. Non fai più a pugni nel negozietto di Marc Dantinne per la Toyota Corolla di Francorchamps Mini Models: te la fa Spark (uhm, omnis comparatio claudicat perché Spark non l’ha ancora fatta, né l’ha fatta Minichamps dopo averla annunciata dieci anni fa ma ci siamo intesi). Non elabori più la Toyota Celica di Spa 1973 dal kit Solido, perché te l’ha tirata fuori, ancora una volta, Spark nella serie speciale. Se la vuoi è lì, costa meno di un kit e la trovi a tutte le ore: bastano una connessione Internet e una Postepay.

Fine della frustrazione.

Questo pensavo quando, dopo aver rimesso a posto i Four Small Wheels anni ’90, ho imballato insieme anche un paio di BMW di Spark (le Superturismo di Spa, una delle mie passioni: quelle sono belle), due Jemmpy e un Solido 2; d’accordo, quest’ultimo ancora è più vecchio e racconta di una realtà ancora diversa, ma accanto ai Jemmpy ci sta bene. Una contrapposizione quasi simbolica fra ciò che avresti dovuto fare per metterti in casa qualcosa di originale e ciò che puoi fare oggi.

Certo, non è che uno Spark sia economico; forse l’argomentazione sulla competitività prezzo poteva reggere dieci o quindici anni fa, quando gli Spark costavano quaranta euro. Ma negli anni ’90 quanto chiedeva Dhont per un Renaissance factory built? O Simons per un Marsh Models?

E quindi? Spark santa subito direbbe qualcuno. Sì e no. Perché quelli che all’epoca riuscirono con enormi sforzi a farsi una collezione realmente originale, ammesso che non siano morti e che mogli e parenti non abbiano venduto tutto agli squali a dieci euro a pezzo aggiungendo anche a proprie spese le vetrinette, possono essere ancora orgogliosi del risultato raggiunto. Ne conosco, e non scambierebbero i loro modelli montati ed elaborati con magna fatica e investimenti impressionanti con un ammasso di moderni Spark.

Perché non è vero che oggi tutti buttano su eBay i loro Starter e Provence Moulage ogni volta che Spark esce con un modello nuovo. C’è anche chi sorride e lascia che i fissati sui gruppi Facebook si scornino a chi affastella più Spark negli armadi di cui sopra. Certo, per i soggetti contemporanei il discorso è diverso ma stavolta non lo affrontiamo.

Poi c’è chi quella frustrazione non l’ha mai superata perché anche se sono passati decenni, quegli stessi kit sono oggi ancora più complessi da montare (o da far montare) per la sempre maggiore documentazione disponibile, che finisce per darti più problemi che soddisfazioni. “Allora lo vedi? C’è Spark che te li risolve, quei problemi”.

Grazie ma preferisco avere meno modelli e sognarmi la collezione di Wayne Moyer. O al limite quella di Elkoubi se solo l’ACO ne avesse avuto più cura.

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