Sono un ammiratore di Emiliano Perucca Orfei, uno dei pochi giornalisti che ascolto volentieri su YouTube. In una lunga intervista fattagli da Daniele Rielli sul canale PDR, che verte principalmente sulla triste situazione dell’industria automobilistica europea, Perucca Orfei a un certo punto inizia a parlare anche del mutato concetto del lusso in questi ultimi decenni. Argomento che è sicuramente correlato alla deriva generale che i nostri costruttori hanno preso, spesso anche per colpa loro, attratti dal miraggio dei guadagni più facili e più rapidi grazie all’imposizione dell’auto elettrica.
Trasponiamo il concetto su un’altra tipologia di prodotto, i modelli: “in passato – commenta Perucca Orfei – ad aver soldi potevi viaggiare in Concorde o comprarti una borsa di Gucci realizzata con tutti i crismi dell’artigianalità. Oggi, neanche ad avere disponibilità riusciresti a comprarti cose che non esistono neanche più”. O se esistono si sono talmente rarefatte da occupare fasce di prezzo abbordabili solo da una cerchia ristrettissima di utenti. E’ un po’ il discorso dei ristoranti: esiste Cracco ed esiste la pizzeria. Stanno sparendo – o sono del tutto spariti – i ristoranti di categoria media o medio-alta, non per tutti ma per chi voglia comunque concedersi qualcosa di un certo livello.
L’osservazione chiave di Perucca Orfei è che il concetto di lusso è andato appiattendosi. “Oggi si fa passare per lusso quello che di lusso non è”. Ecco il punto. Provo quindi ad applicare il ragionamento al mercato automodellistico: al netto del fatto che il pubblico e la situazione produttiva sono cambiate abbastanza radicalmente dagli anni ’80-’90 ad oggi, all’epoca chi desiderava qualcosa di veramente esclusivo aveva una scelta più che discreta: c’erano gli AMR, poi le serie limitate montate da Jean-Paul Magnette, c’era Heco, c’era BBR (caso particolare di cui parleremo più dettagliatamente in un’altra occasione), c’erano al limite anche i Solido elaborati da Robustelli, c’erano le creazioni di Jean Liatti e di Roland Devos; poi – pur con tutti i loro difetti – i montatori di altissima gamma, che sono tutto sommato quelli rimasti oggi, ma appunto sono quelli di livello top, almeno come prezzi (sulla validità effettiva di certi montaggi ci sarebbe da discutere fino a domani mattina, ma è anche questione di gusti personali e di conoscenza delle vetture reali).


Oggi se sei un collezionista di velleità medio-alte e non vuoi spendere due o tremila euro (per non dire di più) in un montaggio, hai poco. Certo, c’è qualche artigiano che nei ritagli di tempo può starti un minimo dietro; alcuni si sono organizzati e riescono a seguire i clienti migliori, ma è l’eccezione.
Negli anni ’80, Annecy o Milano43 sfornavano centinaia di kit speciali montati all’anno e già costruirsi una bella collezione di MRF, Record, Starter, Provence Moulage o Mini Racing montati era già il segno di distinzione dalla massa che si comprava i Verem o i Vitesse.


Oggi che i resincast cinesi hanno invaso il mercato, il lusso medio-alto tende a sparire. Il concetto di “premium” non deriva più dalla qualità oggettiva dei materiali utilizzati o dalla finezza del montaggio, ma piuttosto dalla presentazione o dalla dimensione. Un modello è premium quando viene proposto su una basetta in legno pregiato o in pelle (diciamo ecopelle) ma sempre della stessa ciccia si tratta e tanto meglio se è “grande”: 1:18, 1:12, ora anche 1:8.

Premium è lo Spark in serie ultra-limitata, che strapaghi perché è “raro” ma ha le stesse ruotacce di quello commercializzato nella gamma standard. Premium è il Looksmart cinese che costa di più del solito Spark solo perché, gravato da licenze varie di cui il fabbricante non è titolare, deve fare un passaggio in più. La Ferrari 499P di Looksmart ha la stessa qualità di una Porsche 963 prodotta direttamente da Spark. Premium – ultimo esempio ma si potrebbe continuare – è anche un Tecnomodel 1:18, scintillante nelle sue verniciature, con ruote a raggi pessime e linee talvolta caricaturali.


A fronte di un Laudoracing o di un OttOmobile, il vero lusso è avere in casa la Giulietta Sprint o una Fiat 1100 di Mamone, che può permettersi, nella sua dignità museale, di non scendere ai livelli ossessivi di ricerca del realismo – illusione pseudo-positivista del nostro mondo – cui sono arrivati certi marchi di resincast in 1:18, trascinati da un folle vortice guerresco che ne porterà alcuni alla rovina (questi litiganti che si lanciano dai social battutine infantili sembrano Paperone e Rockerduck o peggio Paperino e il suo vicino di casa Anacleto Mitraglia).



Se vuoi roba fatta bene, con materiali sani e assemblata con amore, ecco appunto che per quanta disponibilità tu possa avere, finirai per trovarne ben poca, a meno di rivolgersi al mercato di seconda mano, pescando quindi nel passato.




Foto in apertura: un tipico esempio di marchio artigianale “old style”, Autodelta43. Old style per l’approccio, non certo per originalità tecnica e costruttiva.

Il settore della moda è quello che meglio rappresenta questa tendenza.
Borse e capi di abbigliamento, il cui costo industriale non supera i 50€, vengono venduti tranquillamente a cifre a tre zeri.
Perché oggi, al contrario di quanto avveniva una ventina d’anni fa, non si compra più “qualità”, ma “immagine”.
Il valore di un oggetto, infatti, non è più legato alla sua lavorazione, alla bontà e durabilità dei materiali utilizzati, ma al marchio che porta che, in questa logica perversa, diventa sempre più grande, invadente e visibile.
Un capo Gucci o Armani prima lo riconoscevi dal taglio e dall’eleganza che trasmetteva, oggi sembra un cartellone pubblicitario.
E questa mentalità ce la portiamo ovunque, pagare per apparire
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