Ormai con i social sono diventati tutti poeti e anche filosofi. Come spesso succede, la semplificazione lascia di una disciplina solo un guscio vuoto, di cui presto si finiscono per dimenticare i fondamenti tecnici e il messaggio artistico. Oggi fa figo citare Schopenhauer o Dante. Forse era così anche venti o trent’anni fa ma almeno era molto più difficile trovare qualcuno disposto ad ascoltarti.
La poesia può uccidere. Può sradicarti da te stesso, può toglierti le certezze. E lo fa non se la vivi come hobby ma se entra nella tua vita magari senza chiedere il permesso. Le auto non sono la mia più grande passione. La letteratura è la mia più grande passione, perché è quella che mi ha dato le energie necessarie a superare tanti momenti di difficoltà. Con poeti, scrittori, pensatori mi sono misurato per mestiere e per curiosità, cercando di tacere il più possibile lasciando parlare loro. Con alcuni ho avuto la fortuna di confrontarmi, persone che non esistono più ma che mi hanno lasciato tante frasi di cui nutrirmi in tempi di angoscia: il teatro di Sarah Kane che non dimentico mai, Sanguineti e le sue rappresentazioni allucinate, magari viste nello stesso tempo in cui Silvio Loffredo lavorava a qualche mosaico nella campagna fiorentina.
Altre volte la poesia è caduta meno dall’alto e si è infiltrata nei turbolenti mesi della giovinezza quasi da pari a pari. Gabriele aveva un anno più di me. Al liceo non ci si frequentava, ci eravamo parlati solo nel corso di una gita a Paestum, Pompei e Sorrento nell’autunno del 1985. Io neo-ginnasiale, lui già alle prese con gli articoli e le forme più complesse dei verbi greci. Era una specie di rivoluzionario, avresti detto un po’ per il gusto di esserlo. Un anno di differenza ma quasi dieci come mentalità. Pensava già alla politica e le sue analisi sull’ipocrisia della società erano lucide anche se ai miei occhi troppo aggressive. Che senso aveva, a cosa poteva servire mettere in difficoltà un povero insegnante laico di un secolare liceo di Barnabiti pronunciando coram populo una parolaccia nel bel mezzo di una lezione di filosofia? Me lo chiedevo e pensavo ad altro.
Le nostre strade andarono avanti parallele senza troppi punti in comune. Ci ritrovammo all’università, io al primo anno, lui già al secondo, dopo aver vissuto, ovviamente con grande gusto, l’occupazione della “Pantera”. Non importava aver perso sei mesi di lezioni e tre sessioni d’esame. La vita era lunga. Io ci sarei impazzito. Si era appassionato alla neurobiologia, perché secondo lui essa assicurava quelle risposte che la filosofia non era riuscita a dargli. Era entusiasta di molte cose: leggeva, rileggeva e il suo cervello assomigliava abbastanza a un vulcano in ebollizione. Sulla porta di camera sua aveva dipinto con vernice nera le parole Sturm und Drang in caratteri gotici. Amava, neanche a dirlo, certi scrittori più “neri” della letteratura latina come Petronio o Apuleio. Di impressionante aveva la capacità di assorbirne i tratti fondamentali dello stile, esercizio che non riesce quasi a nessuno, riproducendoli in parodie e pastiche ora ridicoli ora drammatici.
Ma come succedeva anche a me, era follemente attratto dal secolo breve, dalla poesia del Novecento. Aveva scoperto Dino Campana e non si sa se era lui ad aver cercato di copiarne lo stile di vita o se era la poesia ad averlo infiammato di una smania di vagabondaggio imbevuta di sofferenza letteraria.
Partiva e ritornava, i suoi erano viaggi misteriosi. Un’estate mi chiamò e mi disse: “Vado a Vipiteno, a Heidelberg o a Kiel, vieni con me?”. Avevo già tra le mani l’edizione teubneriana di Orazio che mi guardava con tutta la sua severità tipica della Repubblica democratica tedesca, pronta per l’esame d’autunno col La Penna e dovetti dire di no. Lui gli esami li faceva lo stesso e gli riuscivano ma per farli bene con la sua leggerezza avresti dovuto scavalcare continenti, camminare per anni, incontrare migliaia di persone. Lui l’aveva fatto o aveva lo spirito per farlo, io ancora no.
Con lui però uscivo. In freddi pomeriggi dell’anno universitario prendevamo la sua Fiesta Bianca comprata nuova dal padre (in un’estate ci aveva fatto undicimila chilometri, ammaccandola in un parcheggio in Germania dove aveva rischiato di essere massacrato da una specie di punk il triplo di lui) e filavamo come dei pazzi a Marradi, il paese di Campana. Respiravamo l’odore tipico dei borghi dell’alta montagna mugellana, fatto di legno, di solitudine, di immutabile e densa noia. Tornando, prendeva curve e tornanti in maniera impossibile, andando giù per quelle discese facendo urlare le gomme senza avere la benché minima idea del controllo della macchina. “Za-za”, esclamava malmenando lo sterzo con la stessa grazia di una pala meccanica. “Za-za!” e via a far la barba alla montagna con cinquanta metri di strapiombo buio dall’altra parte.
Le sonorità di Dino Campana erano entrate in lui. Scriveva versi, scriveva anche racconti, fra i quali uno che mi colpì in modo particolare: era la storia di una ragazza che si sedeva di fronte al mare e progressivamente finiva per scoprire l’inutilità della vita assimilandone tutto il malessere esistenziale. Magari un po’ ingenuo, ma quella presa di coscienza, descritta in poche righe con un beffardo sfumare di percezione, era un piccolo capolavoro di metamorfosi. Le sue poesie erano naturalmente imbevute del linguaggio visionario di Dino Campana. Una sospensione lirica che non scadeva nell’autocompiacimento.
Quando Bush senior dichiarò guerra a Saddam Hussein, decidemmo di scrivere un piccolo trattato storico alla maniera di Tacito, De bello saddamico. Tra le frasi in latino paludato, volutamente vergate sine ira et studio come avrebbe detto Tacito stesso, infilavamo qualche sentenza moraleggiante come sarebbe piaciuto a uno storico imperiale. Ma l’attenzione di Gabriele diventava sempre più sfuggente. Spariva per mesi, si era innamorato di una che frequentava un circolo ippico e che non ne voleva sapere in alcun modo di lui. I suoi racconti, dopo le lezioni su San Gerolamo del La Penna, parlavano di notti passate all’addiaccio aspettandola, di appostamenti verso Vaglia – lungo la strada che avevamo percorso tante volte per raggiungere Marradi – di telefonate, di liti, di minacce, di un rifiuto di accettare una realtà di solitudine.
Continuava a scrivere. Leggevo le sue poesie e le commentavamo insieme ma la sua testa era agitata da mille inquietudini. I pensieri si facevano meno organizzati, i ragionamenti meno coerenti e le sue sparizioni dalla vita “normale” sempre più lunghe. Perdemmo contatto, tranne qualche telefonata in cui lui mi parlava di cose che lo preoccupavano: nel 1993 mi disse che il La Penna, esimio professore ordinario di Letteratura latina a Firenze, uno dei maggiori studiosi di antichità classiche dal dopoguerra ad oggi, era in contatto con Totò Riina e glielo aveva fatto capire con aperte minacce. Anzi, una volta la sua auto era stata urtata da qualcuno sicuramente inviato da Riina per farlo fuori. La sua voce sapeva di morte. Era la voce della morte. Un caos guasto e maligno in cui si agitavano frammenti di storie. Il sole e la luna atterriti nella Crocifissione robbiana della Verna. Non lo sentii più.
Nel dicembre del 1994 mi chiamò un collega. “David? κακάγγελος (Enrico parlava come Eschilo anche nei peggiori momenti). Gabriele è morto”. “Me l’aspettavo”, fu tutto quello che riuscii a tirar fuori. Si era impiccato nel giardino di casa sua. La famiglia volle far credere che si era trattato di un incidente.
Venne istituito un premio poetico alla sua memoria. La sua figura e la sua opera iniziarono a circolare, spinte dalla disperazione e dal tardo orgoglio dei genitori. Sue raccolte furono pubblicate, sull’originalità di alcune delle quali nutro qualche dubbio ma pace. Ebbi la pessima idea di partecipare a una delle edizioni del concorso, in cui arrivai in finale. I vincitori non sarebbero stati comunicati fino al giorno della premiazione.
Al tavolo nel gran salone con le tende e le poltrone rosse trovarono posto professori e critici che si riempivano la bocca dei nomi più vari e delle citazioni più fantasiose. A un certo punto, esasperato, mi alzai e rinfacciai loro di non aver pronunciato neanche per sbaglio la figura che era alla base di tutta quella sofferente scrittura, Dino Campana. Credevo di essere Nanni Moretti. Presi e me ne andai, felice della mia piazzata. Non seppi mai chi avesse vinto ma molto probabilmente non ero io. Fu l’ultima volta che cedetti alla tentazione vanagloriosa d’imporre miei versi – seri e non giocosi – a chicchessia. Li troveranno quando sarò morto ma a quel punto non sarà più un mio problema.
