Parole biascicate

“Sto cercando un libro ma non ricordo l’autore”.

“Ricorda il titolo?”. “No”.

“Una parte di titolo”. “No”.

“Una o due parole del titolo”. “No”.

“Il colore della copertina, quanto era grande, quanto era spesso, quanto costava?” “No”. “No”. “No”. “No”.

“Non ricordo nulla. Mi può aiutare?”.

Dialoghi così, un commesso di una libreria potrebbe raccontarvene quanti ne volete. A volte i libri cadono nell’anonimato per la leggerezza di lettori amnesici, che alla fine lasciano perdere la loro vana ricerca; altre volte, invece, l’oblio ha le sembianze di una giustizia che qualche volta ci vede bene e provvede a eliminare dal consorzio letterario qualche volume inutile quando non dannoso.

Leggere un libro (anche senza arrivare in fondo) e dopo mezz’ora dimenticarne completamente l’autore e il titolo. Mi è accaduto un paio di settimane fa, quando mi sono ritrovato a dover deglutire una specie di raccolta di ultime memorie di un autore francese morto di recente. Già il fatto che ci avessero schiaffato in copertina il suo ritratto mi aveva mal disposto. Se non sei Virgilio o Dante, la tua faccia in copertina stona. Ma lasciamo stare, quella è una trovata da pubblicitari, che sono i veri capi dell’editoria.

Dentro, una massa di capitoletti stile prosa d’arte che a tratti vorrebbe essere poesia in prosa. Studi a guazzo, prodotto di una decadenza mentale e linguistica. Un cumulo di rottami sonori slegati e quasi marci. Penso che ogni autore, dopo una certa età, inizi a fare il verso a se stesso in forma melensa e semplificata. Un birignao di facili paroline e di stordita mancanza di significato. Ogni tot pagine emergeva il nome di un pianista che nel corso della vita lo aveva segnato. Era stato non so a quanti suoi concerti. Un cognome slavo, diciamo Cippirik. “Ho bevuto un gin e mi è tornato in mente Cippirik”. “Oggi è primavera e io ricordo le dita di Cippirik che suonano Liszt sulla tastiera di uno Steinway”. “Cippirik sarebbe piaciuto a Wagner”. “Cippirik mi ha mostrato l’essenza delle cose”.

Ho scordato – penso definitivamente – l’autore e il titolo. Il libro l’ho buttato via e credo sia la seconda o la terza volta che mi capita da quando ho imparato a leggere. Per rispetto filologico e anche superstizioso, i libri, anche quelli più insulsi, non li getto mai. Li conservo o li regalo ma a tutto c’è un limite, non necessariamente oggettivo, per carità. Ma pur sempre un limite.

Col sangue avvelenato da Cippirik e dal suo rimbambito ammiratore, sono rientrato in una libreria, e chissà perché mi sono tornate in mente le parole di Calvino sull’esattezza del linguaggio (rileggetevele, le Lezioni Americane, senza limitarvi alle citazioni di Facebook da buongiornissimo che peraltro fanno sempre e solo ricorso a quella sulla leggerezza).

Ne sono uscito con Une vie di Maupassant. Si denigrarono questi romanzi perché apparivano popolari ma “popolari” non erano considerati anche i romantici dai quali i cosiddetti naturalisti volevano allontanarsi? Del resto, allora come oggi, in giro c’è sempre gente che perde puntualmente l’occasione di tacere, come quella massaia pseudo-letterata su YouTube che commenta i romanzi e a proposito di Un amore di Dino Buzzati è stata capace di dire che si tratta di un testo misogino. In questo clima di devastante inettitudine critica sto cominciando a rivalutare gli scritti della Tamaro e non è una battuta.

La precisione della prosa non è diversa da quella della poesia.

Inizi del romanzo, la carrozza della ricca famiglia di Jeannette parte tutta insieme per visitare uno dei suoi manieri rimesso a nuovo. C’è anche la loro inserviente, Rosalie.

Rosalie, un paquet sur le genoux, songeait de cette songerie animale des gens du peuple. La songerie animale des gens du peuple. Una frase rapida e profonda come una lama. E’ questa la precisione che evocava Italo Calvino. La songerie animale: nascono le parole, tutt’altro che spontanee, dall’officina del romanzo. Lontane dalla vita reale per loro natura ma allo stesso tempo così vicine.

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