“Non posso, c’ho da fare i compiti di greco. E poi i rally non è che mi interessino nemmeno tanto”.
La Paola era una dei “taxisti” del mio liceo. C’era chi andava col pullmino, c’era chi capitava con alcune auto private. Nel giro di pochi mesi, gli autisti diventavano i confidenti dei malesseri pre-campanella, quando il freddo ti intorpidiva i pochi concetti lucidi rimasti in piedi prima di un’interrogazione di matematica o i primi refoli di primavera – a Firenze ti capita di trovarla girando l’angolo in qualche mattina di fine gennaio – ti prendevano la gola per qualche sogno da realizzare.
“Dai che t’importa. Andiamo, ci divertiamo, facciamo una grigliata per cena”. La Paola l’avevo conosciuta un paio d’anni prima, ancora alle medie. Guidava una Ford Escort prima serie rossa col cofano nero opaco, su cui aveva incollato un adesivo prismatico di un’aquila, tipo Pontiac Firebird. La prima volta che la vidi inchiodare davanti al portone di casa avevo pensato: “cominciamo bene”. Ironica e ridanciana, la Paola non so come facesse a reggere quell’ambiente snob di famiglie ricche o arricchite dell’austero istituto barnabita, lei di ceto umile, pronta alla battuta popolaresca tipicamente fiorentina. La mattina alla radio ascoltavamo Stella su Radio Blu – che bella la sigla – e quando Stella non c’era la sostituiva il “G”, che di pomeriggio faceva Ganzamente insieme. Il marito, Mauro, faceva il tassista di professione: sul lavoro lo avevano soprannominato “Pensierino” perché sembrava (o era) sempre incocciato con quel suo sguardo baffuto e il vocione basso. Avevano un figlio più piccolo di me, e conducevano una vita semplice e dignitosa di piccoli borghesi, con qualche lusso meritato dopo anni di lavoro.
Avevano a disposizione una piccola casa di campagna in comproprietà e proprio lì sarebbero andati per il weekend insieme ad un’altra famiglia che aveva aderito all’accordo; il Rally dell’Impruneta era l’occasione per una scampagnata autunnale.
Era il 1985 e dopo tre anni passati a campare di rendita alle medie, mi ero accorto che se volevo continuare a togliermi delle soddisfazioni mi toccava studiare seriamente.
“Se cambi idea ci telefoni e vieni con noi”. Il senso del dovere – che più che altro era una superstizione primitiva del tipo: se non esci ti andrà bene, se esci e perdi tempo finirai male con un cinque nella versione di greco – incatenava quelli come me alla sedia, modello Vittorio Alfieri in versione urbana anni ’80, con le Timberland, l’Henri Lloyd e con un gran terrore della vita addosso.
Ma le corse – si sa – tirano più di ogni altra cosa e alla fine mi aggregai alla combriccola, che partì nel pomeriggio del sabato alla volta della campagna fiorentina. Il Rally dell’Impruneta era una gara di un certo livello: ricordate i rally di zona? C’erano Lancia 037, Opel Manta 400 e così via. Le prove speciali si svolgevano verso Compiobbi, poi da Vaglia su verso Bivigliano, Santa Brigida, poi Greve in Chianti e Figline Valdarno. Un concentrato di classici toscani, strade che ancora oggi ti regalano puro divertimento.
Non ricordo esattamente dove fosse la casa; sicuramente non all’altezza della Bolognese, che già all’epoca conoscevo bene. Sopra al caminetto un enorme poster con una Ferrari. “Non sappiamo cosa sia, tu lo conosci?” Era una delle 512S di Sebring 1970. Inconfondibile con le deformazioni della calura e il cemento chiaro. Amavo già Sebring prima ancora di metterci piede. La serata andò avanti in modo semplice e divertente, la scuola per un momento era dimenticata. Il novembre minaccioso che preludeva a un’annata difficile sembrava meno pesante.
Un gran mal di testa mi accompagnò al risveglio, in piena notte. Mi ero quasi dimenticato perché fossi lì, in un letto troppo corto. Non avevo dormito quasi nulla. Poco lontano passava la speciale notturna. Non c’era uno straccio d’illuminazione, tranne i fari accecanti delle auto. Nessun altro spettatore al bordo della stradicciola in discesa, asfaltata male, con Pensierino cui era parso bene trovare un baluardo sicuro dietro un secco palo di legno. Gli si era rannicchiato contro, e da lì osservava le auto andare giù a bestia dandoci consigli su come evitare pericoli inutili.

Un gran botto interruppe per un pezzo lo svolgersi della corsa. Alla fine dei passaggi tornammo dentro cercando di riposarci qualche ora. La mattina ebbe il sapore di tante colazioni casalinghe, esattamente come quelle che ingurgitavo automaticamente prima della scuola. Un cornetto confezionato e del caffellatte. Era domenica e sembrava strano fosse domenica.



Di solito le domeniche mattina passavano in un baleno precipitandomi verso il tunnel del pomeriggio, al massimo allietato dalla visione di un GP di Formula 1. Il resto del tempo, alla scrivania col gatto Break che faceva i suoi trip al bollore della luce da tavolo. I rally mi avevano sfiorato, io che sognavo la discesa del Tertre Rouge con i pini e la ruota sullo sfondo. Pensai che mi sarebbe piaciuto avere in collezione qualche Ritmo Gruppo N. Sdraiato per terra ripresi a studiare non le regole dell’imperfetto greco ma il TSSK, forse già quello autunnale. Passava alla televisione la pubblicità “Nuova Ritmo – Viva Ritmo” e pensai che tutto sommato i rally non erano poi così male.

Bellissimo nella forma e nella sostanza, mi riporta alla mente quella tappa di trasferimento di non so quale rally. Poi, risaliti in macchina, il mio Babbo che prendeva apposta le curve all’ultimo momento per dare l’impressione di farle su due ruote. Con una Panda 30 celeste non si correvano grandi rischi.
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Bravo David, leggo solo ora questo gustoso articoletto e mi complimento; per quelle che sono le mie inclinazioni, dare un po’ di spazio anche ai rally è sempre cosa buona e giusta. Rally (almeno quelli della mia gioventù, anzi della nostra gioventù) uguale avventura e molto altro ancora? Io dico di sì, decisamente!
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