A cura di Marco Giachi – Smart Aerodynamics
Nel post di qualche giorno fa dove si racconta della Riviera di Alberto Colombo, si accenna a “… un’altra vettura simile alla nostra: la Ferrari 312 B “Spazzaneve” che non aveva mai partecipato a nessuna …”. Fermo restando il mio massimo rispetto per l’iniziativa della Riviera, ancora di più oggi per essere riusciti a farla vivere e rombare in pista dopo così tanti anni, il paragone con la creatura di Forghieri mi sembra un tantino forzato e un po’ irriverente nei confronti di quest’ultima. E’ passato molto tempo ormai e molti appassionati, anche decisamente adulti non necessariamente giovani, forse non hanno presente bene cosa rappresentò la “Spazzaneve”.
Siamo ai primi anni settanta, in giro vanno ancora per la maggiore le Formula 1 cosiddette “ a sigaro” per la loro forma fusiforme ad eccezione della Lotus 72 “a cuneo” e, se vogliamo, della March 701 con i suoi serbatoi laterali “a forma di profilo alare rovesciato”, una specie di effetto suolo antesignano.
La Ferrari, tanto per cambiare, è nel solito marasma fatto di polemiche e lotte interne, accentuato dal fatto che il Commendatore è assente per problemi di salute e i risultati scarseggiano; dopo i fasti della 312 B, che nel 1970 ha perso il Campionato con Jacky Ickx per un nonnulla, ora a Maranello c’è aria di crisi e questa colpisce in particolare il responsabile tecnico, ovvero l’ingegner Mauro Forghieri, che viene allontanato dalle corse.
Ho parlato spesso con Forghieri stesso di questo periodo e lui sosteneva che l’allontanamento dalle corse rappresentò una vera e propria fortuna in quanto gli consentì di sviluppare alcune idee e maturare certe convinzioni che furono sperimentate con la “Spazzaneve” e trasferite poi nella 312 T, quella del titolo mondiale di Niki Lauda del 1975.
Così nacque la “Spazzaneve”, un laboratorio viaggiante che sin dall’inizio non era pensata per essere una vettura da Gran Premio, e che non ha mai corso – è vero – ma fu guidata in prova da gente come Jacky Ickx, Arturo Merzario e Clay Regazzoni.
Le idee che ronzavano nella testa di Forghieri erano essenzialmente due, entrambe rivelatesi corrette negli anni a venire: 1) l’importanza di avere una carrozzeria larga affinché anche una piccola depressione potesse trasformarsi in una forza significativa e 2) l’importanza di avere masse concentrate per diminuire l’inerzia alla rotazione. La prima idea veniva dagli studi fatti in galleria del vento sul prototipo 312 PB e la seconda da una convinzione personale dell’ingegnere ed è il germe che portò al cambio trasversale della serie delle “T”. La “Spazzaneve” fu contestata dai piloti che la provarono ma Forghieri ricavò le indicazioni e le conferme di cui aveva bisogno.
Ci tenevo a precisare queste cose anche solo per “dare a Cesare quel che è di Cesare”, in questo caso a Forghieri il giusto riconoscimento per la sua creatività ingegneristica e capacità d’innovare e delle quali la “Spazzaneve” è il testimone vivente purtroppo “deturpato” dall’ultimo proprietario che ha dato alla vettura un aspetto aggressivo corsaiolo che ne viola lo spirito e che quella originale non ha mai avuto (ndr: lupus in fabula, in apertura trovate una foto della macchina alle recenti Finali Mondiali Ferrari svoltesi al Mugello lo scorso ottobre).



Bello l’articolo, come bello è il libro Capire la F1, grazie! Sono assolutamente d’accordo. La storia di quegli anni 1971-73 non è mai stata raccontata bene dal punto di vista tecnico, nel suo contesto tra conflitti tra ingegneri, la malattia di Ferrari e le pressioni FIAT. In fatto, penso che la storia della tecnica F1 e Sport Ferrari degli anni 60-80 non è mai stata raccontata come per dovere, invece di quella della cronaca gara a gara.
Leggendo gli Autosprint di quegli anni, si capisce com’era una critica organizzata da Sabbatini contro Forghieri. Sabatini (e di memoria penso anche Benzing) argomentava che la soluzione vincente era il passo lungo della Lotus 72/Chapman e non il passo corto favorito da Forghieri. Dimenticavano evidentemente le prime Tyrrell di Derek Gardner! Il risultato fu la 312B3 Thompson con una distribuzione di masse caricaturale e anche la PB 73 di Caliri (che anni dopo ha lasciato delle interviste in Rombo con propositi a dir poco questionabili su a chi si dovesse l’idea del cambio trasversale o l’idea della prima ala del 1968).
Lascio però una questione: Forghieri quando ha disegnato la Spazzaneve con una passo così corto, lo ha fatto apposta sapendo che i piloti sarebbero a disagio, o piuttosto fu una scelta puramente sperimentale per capire la strada da prendere? La storia raccontata in Autosprint era che l’auto dovrebbe fare il suo esordio a Monza, salvo dopo essere stata bocciata dai piloti, spedendo Forghieri in cantina. Ma leggendo Forghieri, sono sempre rimasto con l’idea che la Spazzaneve fosse una prima bozza per preparare la vera auto del’73. Grazie ancora!
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Gli interventi del nostro Guilherme sono sempre molto ficcanti. Siamo noi che ringraziamo lui.
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Sulla questione del passo della Ferrari Spazzaneve ho la mia teoria ma sarebbe più ragionevole e interessante sentire il parere diretto dell’ingegner Giachi.
Quanto all’assenza di una vera storia tecnica (e quindi aziendale) delle Ferrari di quel periodo, sono d’accordo. Gli inglesi si sono occupati spesso di quell’era, ma con un approccio alla Anthony Pritchard, ossia puntiglioso ma solo sotto il punto di vista dell’analisi dei risultati, che sono una conseguenza di tanti elementi che gli storici – per pigrizia o per incapacità – omettono di prendere in considerazione. Qualcosa è stato fatto da Hans Tanner. Del resto, anche per quanto riguarda i prototipi, gli stessi libri più recenti peccano di superficialità quando non di inesattezza in termini assoluti. Non voglio far nomi ma scrivere una recensione su uno di questi volumi recenti mi inimicherebbe diverse persone, alle quali mi accontento che fischino le orecchie già così.
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Grazie, David, solo posso dire che ho imparato tanto, ma tanto leggendo questo blog (come il suo predecessore) che il mio debito riguardo a voi raggiunge a questo punto livelli astronomici. Parlando di libri, sono evidentemente d’accordo. L’ultima edizione del Tanner vale ancora oggi la pena proprio perché rivista da Doug Nye (e che tristezza che dopo i due volumi della History of Grand Prix Car, niente si è fatto, escludendo i libri di Piola e solo Piola).
Senza fare nomi, di fatto, un libro recentissimo sulle Ferrari sport in tiratura limitata e a un prezzo da togliere il fiato mi ha fatto piangere per quei poveri alberi. Mi dispiace, ma sono collezioni di foto mascherate di saggio storico. Me lo aspettavo, però, visto quello altro che una certa stessa casa editrice ha messo fuori sulle Sharknose anni fa (cui autore non citava neanche il classico ma ancora valido libro di Nye).
Ormai, come certi accumulano scatole di 1/18 e 1/43 fino all’esasperazione (e poi conservate, sa Dio, in che condizioni), altri si intrattengono ad acquistare serialmente libri in cosiddette edizioni di lusso che poi non leggono (mica li aprono), tanto hanno paura che il loro ‘investimento’ perda il suo valore.
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Guilherme, di recente si è aggiunta un’altra questione pratica apparentemente paradossale: sempre più libri escono non per amore di documentazione e di ricerca storica, ma solo per creare del “pubblicato” al fine di ottenere accrediti stampa per l’accesso ai circuiti. Un costume che si è diffuso dapprima con i periodici, per estendersi poi ai libri, soprattutto da quando la stampa digitale rende più facile la pubblicazione di volumi. Ma anche alcuni editori tradizionali hanno ceduto a questo malvezzo, con l’obiettivo di vendere comunque prodotti fondamentalmente scadenti. Vedi quindi libri con elegante veste editoriale ma guastati da testi inutili, erronei quando non copiati e incollati direttamente da Wikipedia (ho prove concrete, non sto parlando sul nulla). In una situazione come questa, distinguere ciò che di buono si pubblica (e ce n’è, per fortuna) da roba di poco conto non è sempre facilissimo.
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