testo e foto di Riccardo Fontana
Buona parte del successo travolgente di Spark è da ricondurre, tra le molte cose, ad un certo senso di “specialino montato in serie a costo accettabile” che traspare dai suoi modelli: una mentalità piuttosto diversa da quella solita dei grandi produttori, il gusto per le stranezze, anche solo meramente l’odore pungente di resina poliestere che impregna stanza e narici del collezionista che si trovi ad aprire una teca proveniente da Macao, riportano a tempi passati, tempi scanditi dal montaggio di modelli contenuti in scatoline a scacchi bianchi e rossi ad esempio. O contenuti in scatoline azzurre bordate di bianco. Già, perché il concetto ispiratore di Spark, ossia la rifusione tra mondo artigianale e realtà puramente industriale, non è propriamente figlio della mente di Hugo Ripert, anche se le sue origini, guarda caso, si possono fare risalire alla solita Provenza, che moltissimo ha dato all’1:43 in termini di idee e prolificità. Siamo nel 1987, e il microcosmo dell’1:43 sembra un’entità capace di null’altro che crescere sempre di più, e la Francia – voir la Provence – è caput mundi in questo senso: Provence Moulage, Starter, e gli ormai rimasugli di Record si danno battaglia commerciale, e le novità, assai spesso sovrapponibili, non si contano più. Qualche tempo prima è nata Vitesse, primo embrione di un “reflusso” verso il Die-cast che vivrà poi il suo apogeo anni dopo con Minichamps, il problema dell’accumulo infinito di kit che non verranno mai montati nelle cantine dei collezionisti inizia a farsi sentire, e qualche artigiano inizia a porsi delle domande… Tra questi c’è Xavier De Vaublanc, che inizia a chiedersi se non sia il caso di creare uno spin-off più rivolto “alle masse” di quella Provence Moulage che tante soddisfazioni commerciali gli stava dando. Detto fatto, in quel 1987 nasce il marchio Sibur, con l’intento di valutare i tempi, le modalità, e se vogliamo le risposte del mercato in merito ad un eventuale passaggio ad un prodotto più industriale, magari pressofuso, per rinverdire i fasti passati dei vari Solido, Dinky e Norev. I modelli inizialmente sono pochi, a catalogo ci sono una bella Renault 5 Maxi Turbo, una Bugatti di Le Mans 1937, e uno strepitoso Citroën C6 semicingolato della Croisière Jaune, con tanto di bandierine e carrello.

Un modello fenomenale per fedeltà e potere evocativo, soprattutto in un paese come la Francia. L’idea è quella di iniziare, vagliare il mercato, e poi vedere il da farsi, qualora i segnali ricevuti siano favorevoli. I modelli, molto ben rifiniti per l’epoca, sono contenuti in teche di plastica trasparente in pieno stile Solido di metà anni 80, e proprio come i coevi Solido hanno le decals da applicare a cura del collezionista e la data di uscita del modello segnata sul fondino. L’Autochenille ha invece un bel box di presentazione in cartoncino rosso, a metà strada tra i vecchi Minialuxe e i coffret Solido. Curiosamente, proprio perché l’investimento per l’implementazione della produzione per pressofusione dello zamak è molto oneroso, i modelli sono un misto di resina e particolari in plastica (ricorda nulla? N.d.r.). La qualità è più che buona, certamente superiore a quanto proposto da Solido e, per molti aspetti, anche da quanto fatto vedere da Vitesse, che in questo momento sta vivendo un grosso successo, ma nonostante le ottime premesse il pubblico non risponde come si conviene, e l’esperimento si esaurisce pressoché da sé, praticamente sul nascere. Oggi i Sibur, primo esempio di anello di giunzione tra lo speciale a basso costo e l’industriale, sono abbastanza difficili da incontrare, pur se solitamente alquanto economici: io in tutta la vita dal vivo ne ho incontrati tre, una 5 Maxi Turbo (che ho acquistato e che si può vedere in queste immagini accanto all’analoga riproduzione Solido), una Bugatti, e una C6 Autochenille. L’idea era certamente buona, ed è poi stata portata a compimento con Spark, ma questa è tutta un’altra storia.







Le prime referenze Spark arrivate dal mio negoziante, sono rimaste sugli scaffali, invendute, per diversi mesi/anni…
A parte la scelta dei soggetti, i collezionisti non gradivano la scarsa “sostanza” della resina, che non reggeva il confronto con lo zamak di Minichamps.
Oggi i ruoli si sono invertiti.
Questo per sottolineare che il successo non sempre premia l’idea geniale, ma occorre avere la pazienza per aspettare il momento giusto, in Sibur si sono arresi troppo presto.
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Ecco, questo del peso dei modelli è sempre uno spunto interessante, quasi che invece di riproduzione che, in teoria, dovrebbero essere quanto più fedeli possibile, si trattasse di corpi contundenti, o piombi da immersione.
“Senti che peso”, “lascia perdere quel plasticone”, quante volte le abbiamo sentite dire queste cose?
Però… Esempio tra mille che mi pare decisamente il più calzante: Norev anni ’60, linee perfette, interni e vetri quando i tanto decantati Dinky faticavano ad avere anche solo i vetri, modelli che seguivano le serie di produzione delle auto reali (vedasi la Simca 1000 che ha cambiato fari e fregi sul retro tra prima e seconda serie, fedelissimi in entrambi i casi).
Chip? No, perché come fai a chippare qualcosa che è tinto nella massa?
Dulcis in fundo: scala 1:43 generalizzata dalla Fiat 500 Giardiniera alla bisarca Berliet, mentre Dinky o CIJ ti rifilavano certe auto in scala 1:38 e i camion in 1:64, così tu avevi una De Rovin microcar grande come un Unic Izoard, che tanto son giocattoli e non ci fa caso nessuno.
Eppure i Norev, i cui stampi hanno tenuto botta fino a ieri sera (serie con le teche e il cartoncino a mo’ di legno di inizio-metà anni ’90) sono considerati al limite dei “modelli da bazar” perché sono di plastica, mentre gli altri oh, guai a chi li tocca, che sono istituzioni.
Ciò per dire che purtroppo questa storia del peso ha delle radici estremamente forti e dure a morire
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Vero, a quei tempi il peso era considerato un pregio. i Politoys in plastica montavano un lingottino di metallo all’interno per aumentarlo. Per Norev il problema è sempre stato quello della qualità dei materiali, ma questa non era certo la discriminante a quei tempi, mentre il peso sì. Anche i Minialuxe erano in rhodialite, ma, almeno i miei, hanno subito deformazioni decisamente ridotte rispetto ai Norev.
La maledizione del materiale ha poi colpito kil marchio anche in tempi più recenti con lo sbriciolamento dello zamak.
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Si compra un tot al chilo…
I modelli della serie Ferrari di Herpa dei primi anni novanta, ad esempio, realizzati in plastica (perfetti malgrado i trent’anni) te li tirano dietro.
E sono fantastici
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No signori, no… Deformazioni peggio dei Minialuxe è impossibile, ne ho anch’io, e non esiste nessun Norev in Rhodialite che neanche si avvicini alla stortaggine dei Minialuxe, ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi… E potrei fotografarne, visto che (relativamente ahimè) ne ho.
Diciamo che tra Norev, Minialuxe e Joustra in plastica era una lotta senza esclusione di colpi all’ultimo schifo.
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Marco, anche i primi Siku, la famosa “Serie V” in plastica, oggi rarissima e costosissima (e bellissima, francamente penso sia una delle serie di giocattoli d’epoca tra le più affascinanti in assoluto), aveva dei minuscoli piombi incollati ai pianali per dare peso e consistenza ai modelli.
Alcuni di quei piombi in realtà erano in magnetite, e servivano perché spesso, quei modelli, erano in “dotazione” alle scuole guide in Germania e Austria, e correvano su apposite piste magnetiche in cui si illustravano agli allievi (in un modo talmente bello che mi mancano le parole per descriverlo) le regole della corretta circolazione stradale.
Quando il modello era anche una forma didattica oltreché ludica, un po’ come i Dinky che avevano all’interno della scatolina un piccolo segnale stradale…
Sono uscito dal seminato, d’altronde nulla di ciò che stiamo dicendo ha una consecutio logica, quindi suppongo (spero!) vada bene
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Già, si parte dai Sibur e si arriva ai Siku! Prima o poi David ci richiama all’ ordine! I miei Minialuxe sono tutti tacots e non hanno deformazioni sensibili, qualche leggera imbarcata delle superfici più grandi, niente di grave.
Quando ero ragazzo le scuola guida avevano in vetrina plastici con segnaletica e modellini usati per insegnare agli allievi le regole della circolazione stradale.
Per i segnali stradali forse ti riferisci ai Dinky France della serie 1400, se non sbaglio. Anni prima ricordo una confezione di segnali stradali, sempre Dinky, con un foglietto recante un disegno di un layout stradale con segnali e modellini.
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Torniamo a Sibur: ho scordato per strada gli ultimi due modelli della serie, segnalatimi da David, camion GMC e Talbot Lago di Le Mans 1950.
Un catalogo quantomeno eterogeneo, a riprova del fatto che si trattasse, verosimilmente, di un test di mercato.
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La Talbot finì nella lista degli acquisti da Tron, doveva sostituire un John Day mediocremente montato da me, ma non arrivò mai in collezione, non ricordo perché.
I GMC, se non sbaglio, erano in scala 1/50.
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