Uno scrittore, un giornalista sono veramente popolari quando entrano nelle case della gente che non legge. A Firenze, popolare lo era Giorgio Batini, con i suoi libri di storia del territorio, le schede di Domenica dove o il Dizionario del tarlo. Diventavano, i suoi, volumi da sistemare accanto alle ricette e all’elenco del telefono. C’era poi l’orgoglio di altri scrittori meno conosciuti ma tenacemente radicati al territorio, che godevano di una certa fama a Scandicci, a Lastra a Signa, a Sesto Fiorentino o a Monte Morello per aver scandagliato, come nessuno storico più paludato avrebbe fatto mai, le microvallate e i villaggi che ormai di antico non avevano più niente ma che scavando rivelavano le tracce di un lavatoio o di una chiesa del XIII secolo.
“Prendi il libro dove ci siamo anche noi, fagli vedere, fagli vedere”, diceva la padrona di casa al figlio, o il marito alla moglie mentre me ne stavo in piedi nel tinello in attesa di qualcosa di veramente interessante da buttare nel computer. Quante volte, ai tempi della mia collaborazione con Toscana Qui, diretta da Batini, nei pellegrinaggi alla ricerca di questa e quell’altra curiosità, avrò sentito questa frase. Fra il 1994 e il 2007 ho battuto le province toscane palmo a palmo, intervistando, fotografando, raccogliendo testimonianze. Il local mai destinato a diventare glocal era il mio pane quotidiano. “Il libro dove c’è il Bubba” avrà certamente dato poca gloria di livello nazionale allo storico della porta accanto, costretto magari nella sua opaca quotidianità alle mansioni di usciere in Comune, di guardia giurata o di postino. Personaggi che nella totale indifferenza del mondo accademico portavano avanti le loro ricerche, spesso con metodi poco filologici e alquanto amatoriali ma tant’è. I volumi che ne uscivano li riconoscevi subito: copertina in brossura, un po’ squinternati, graficamente confusionari, pieni di foto e disegni ripresi da chissà dove, privi di indici e di rigore storico, sempre stampati da piccoli editori, benevolmente disposti nei confronti di questi “ricercatori”. Questi volumi uscivano e facevano l’orgoglio della frazione, del quartiere, eredi di una tradizione che risaliva agli eruditi, spesso ecclesiastici, del sette o ottocento. “Mi sono letto tutta la Storia del Mugello del padre Lino Chini”, mi disse una volta uno di loro, che si vantava di non essere andato oltre la terza media. “La ammiro”, gli risposi. “Io non sono mai riuscito a superare pagina 20, come con Lolita di Nabokov”. La battuta non la capì.
Frugando nelle storie segrete della Toscana mi sono imbattuto in tanti di questi volenterosi e nei loro ammiratori. Molto mi hanno dato, nella loro infervorata, malcelata voglia di comunicare, di chiacchierare, di apparire. Anche nel nostro settore, quello dei veicoli, il loro lavoro si è rivelato prezioso, perché in tanti casi sono stati gli unici a volersi sporcare le mani con storie inedite, materiale fresco, testimonianze dirette raccolte da gente che conoscevano solo loro. Tutti questi volumi sono riuniti nella mia biblioteca sui medesimi scaffali: c’è il volume con la storia della linea Ataf numero 25 (non sto scherzando, è la Fernandona), quello sulla linea 7 che va a Fiesole, quello sul versante sud di Monte Morello (perché il versante nord è un’altra cosa e se ne occuperanno in altra sede) e quello su San Biagio a Petriolo, che vorrebbe tanto essere una città che fa provincia e invece non è altro che un quartiere di Firenze che guarda in cagnesco la vicina Peretola. Il trionfo del localismo destinato a non uscire mai dal guscio di domeniche pomeriggio dolorosamente deserte e tutte uguali, illuminate dalla luce arancione dei lampioni lungo Via Baracca o a Rifredi.
A volte, però, il localismo s’è preso la rivincita, dando una dignità diversa e un respiro più ampio alle realtà cittadine. Nella primavera del 1996 ero a caccia di qualche storia della marineria da pubblicare sulla rivista. Fu un mio bis-zio (che ho sempre considerato uno zio “vero”), che aveva sposato una viareggina, a darmi un’idea: “perché non cerchi Francesco Bergamini? Lui potrebbe suggerirti un po’ di argomenti”. Abitavano a Firenze, gli zii, e su un mobile del loro modesto appartamento dietro la ferrovia di Firenze Nova, c’era un modellino in coccio della celebre torre viareggina, con la quale, in occasione delle nostre visite di famiglia, avevo giocato per anni e anni senza romperla. Viareggio per me significava il fratello della zia, Moreno, che aveva una cartoleria che io trovavo avvincente e che nel piazzale del casamento mi aveva fatto guidare la sua Simca 1000 a otto anni, le sfilate del Carnevale e il ritorno la notte sull’autostrada. Bergamini era sull’elenco della Telecom. Fu molto gentile e mi dette un appuntamento.
Con grande difficoltà (i GPS non esistevano) riuscii a trovare la sua casa in periferia, un giorno, tra l’altro, in cui mi ero svegliato con un mal di testa terrificante. Fu un incontro lungo, tutto un pomeriggio. Scoprii un personaggio cordiale ma fermo, uno che aveva dovuto affrontare nella vita problemi non da poco. Mi parlò dei marinai viareggini, ma anche dei muratori e della loro dipendenza dal vino. Non presi appunti, raccolsi le idee un po’ come veniva. Era orgoglioso della sua vicinanza a Mario Tobino, che lo aveva addirittura inserito nell’elegante prosa di un suo libro, Sulla spiaggia e al di là del molo: “…e il Bergamini che per primo ci disse il nerbo delle storie marine…”.
Ma storico, “il Bergamini”, non voleva essere definito. “Io sono uno che raccoglie materiali che gli storici veri utilizzeranno per le loro ricerche”, mi disse. Aveva fondato un importante centro di documentazione a Viareggio e i suoi libri erano sempre ben accolti dalla critica. Non rinunciava, nella sua prosa, al taglio giornalistico, leggermente affabulatorio, che forse avrebbe fatto storcere il naso a qualche professore universitario, ma lui era un divulgatore e tale voleva restare. Il suo eloquio era forse meno brillante della parlata del Batini, cui ero abituato in redazione, e anche la prosa del Bergamini si spezzava in frasi più brevi, meno sofisticate rispetto a quelle del direttore di Toscana Qui. C’era anche meno ironia, meno voglia di sorprendere, ma le pagine erano permeate di un’etica onesta, quasi protestante. Bergamini, che era nato nel 1924, è mancato nel 2004. Non ho più pensato a quell’incontro per tanti anni finché, giorni fa, mi sono rispuntati fuori due dei suoi volumi, “Viareggio e la sua storia 1000-1800” e “Le mille e una… notizia di vita viareggina 1169-1940”. Formato grande, contrario ai francobollini cari agli accademici, poche note, molta sostanza da tirar fuori con le proprie risorse di lettore. Non son libri fatti per gli schizzinosi, ma al contempo sono densi di notizie e di spunti di riflessione.


Certamente Bergamini, nato nel ’24, non fu il primo a occuparsi di storia viareggina: il primo fu probabilmente Giuseppe Genovali, cancelliere della Compagnia della Santissima Annunziata e insegnante, vissuto nel XIX secolo. Seguirono, alcuni decenni più tardi, le opere di Francesco Lenci, riprese, fin dall’inizio degli anni sessanta, dal Bergamini, in collaborazione con Marco Palmerini. L’editore dei libri di Bergamini è rigorosamente viareggino, Pezzini, che nel 2020, anno del duecentesimo anniversario di Viareggio come “Città”, ha ristampato anastaticamente “Le mille e una… notizia”. Un libro scritto nello stile annalistico, che richiama le origini della storiografia latina. Del mio incontro con Francesco Bergamini ho parlato a pochissime persone. Gli sono sempre stato grato per aver accolto un giovane giornalista di nessuna notorietà e di avergli regalato tante idee che furono – almeno spero – utilizzate con profitto. Non avevo forse l’esperienza per porre le domande giuste, ma lasciai casa sua con la sensazione ben precisa che era anche per merito di certi personaggi che amavo questo lavoro.


Letto tutto dun fiato, bello mi è piaciuto. Una bella fotografia su una realtà che sembra di altri tempi. Complimenti.
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