Testo di Riccardo Fontana. Foto archivio pitlaneitalia.com
In primis furono i giocattoli.
Avrei voluto scrivere “i diecast”, ma data la quantità di modelli prodotti agli albori in plastica, gomma, bachelite, e più o meno qualsiasi tipo di materiale di recupero fosse possibile utilizzare, sarebbe stato improprio: di fatto diecast c’erano, in ordine di anzianità, i Tootsie, i Märklin, i Dinky (con però i fondini, quando sono arrivati, in lamiera), e null’altro.
Poi arrivarono altri costruttori, Mercury, Solido e Corgi, e i giocattoli iniziarono a farsi sempre più belli e fedeli al vero.
In un’epoca, quella del secondo dopoguerra, in cui l’automobilismo scatenava formidabili ondate di passione popolare, fu una mera conseguenza logica la nascita delle prime “collezioni”, che raccoglievano un po’ di tutto, dalla Ferrari F1 della Mercury, al camion, al modello autoprodotto, con risultati a volte ottimi, della propria vettura, ammesso che si fosse talmente benestanti da potersene permettere una (vedi Fiat 1100E dell’Ing. Ratto, su questo sito).
Modelli autoprodotti, ebbene sì: all’epoca, per quanto ci fossero già molti modelli in circolazione, il bacino di riproduzioni era molto ristretto, quindi capitava che la Jaguar D-Type o la Maserati 250 F fossero oggetto di attenzione da parte di una buona dozzina di produttori, mentre era difficilissimo, se non impossibile, procurarsi il modello della propria onesta auto di tutti i giorni: paradossalmente, se togliamo la Mercury in scala 1:48 e forse la ICIS, che comunque diventavano praticamente irreperibili non appena ne terminava la produzione, fino a fine anni sessanta procurarsi un modello di una banalissima Fiat 500 è stato parecchio arduo, mentre tutto sommato una Ferrari 275 GTB, tra Politoys, Edil, Norev Dinky e compagnia bella, la si trovava quasi dal ferramenta (soprattutto la Norev).
Per quanto riguarda la Topolino, visto che in un’epoca senza internet e senza borse ci sarebbe stato da recuperare la Simca 5 della Dinky d’anteguerra, lasciamo ogni considerazione al lettore.
Perché questo? Perché la gente voleva sognare, perché i bambini volevano sognare, e con un missile rosso o british green con un numero sulle fiancate si sogna da sempre assai meglio.
Da qui, perciò, l’esigenza per i collezionisti più attenti, o semplicemente più vogliosi di ampliare la loro raccolta, di mettere in cascina dell’altro, e nacquero così gli speciali.
I primi speciali, John Day e Marc Europa solo per citare i più noti, non erano nulla di eclatante, né avrebbero dovuto esserlo: dovevano colmare dei buchi a volte importanti e sostenere decorosamente la “compagnia” dei Solido dei primordi (distinguo necessario, n.d.r.), dei Corgi e dei Dinky normali, che a loro volta non erano nulla di eclatante, almeno a livello di pura fedeltà.
Chi li produceva era un normale appassionato, come moltissimi di dediti all’autocostruzione ce n’erano un po’ dappertutto in Europa e non solo, che però decideva di fare in modo di “creare più copie” del suo lavoro, da mettere a disposizione di altri collezionisti per aiutare anche loro a riempire i buchi nelle loro collezioni.
In modo tale, da rendere anche loro modellisti, perché è in questo momento che nasce il distinguo tra le due cose.
Da lì a migliorare sempre di più il prodotto il passo fu breve, e in un battito di ciglia arriviamo ad AMR, MRF, e poi ai giorni nostri.
Ora, in tutta questa narrazione, ai più attenti non sarà sfuggito un dettaglio: ho sempre parlato spingendo molto sul termine “fedeltà”. Sbagliando, e non ho problemi a dirmelo da solo, perché ogni modello è figlio della sua epoca e di chi l’ha fatto, e nell’inquadrarlo questo non dovrebbe mai essere dimenticato: John Day il concetto di cera non sapeva neanche cosa fosse, come pure quello di fotoincisione, faceva del suo meglio dati i mezzi e le conoscenze che aveva, e una Ferrari 250 TR 60 nel 1966 era “come la faceva lui”, non come l’avrebbe fatta Starter vent’anni dopo.
Dico sempre che i modelli sono un po’ come delle monete romane o delle anfore etrusche, che sono cioè delle piccole testimonianze dei loro tempi, pezzetti di un’epoca: chi si sentirebbe di giudicare la fedeltà dell’Alfa Romeo Bimotore di Nuvolari della Märklin? Detto che comunque parliamo di un gran bel modello, si tratta di una riproduzione datata 1936, quando Nuvolari era ancora all’Alfa e aveva appena finito di vincere al Nürburgring con la P3, e sarebbe stupido dire, come in troppi fanno “ah che schifo, è un obsoleto, meglio una Kess”.
Certi modelli, in realtà tutti, andrebbero presi e conservati un po’ con la mentalità “da Alberto Angela”, e non con quella del conta chiodi, e in questo senso allineare magari due o tre riproduzioni della stessa auto fatte in epoche diverse è un bell’esempio del giusto spirito, anche se parliamo sempre di personali sensazioni, e sarebbe ingiusto restringere il campo in giudizi troppo sferzanti.
Il miracolo vero, secondo me, si raggiunge per certi modelli ormai quasi o iper quarantenni, per i quali siamo ancora qui a salutarli come le migliori riproduzioni dei rispettivi veicoli reali, e mi vengono in mente certe Ferrari di Starter o MRF, ma l’elenco sarebbe veramente molto e troppo lungo: in quel caso, la testimonianza del tempo che fu si fonde al collezionismo moderno, e il fascino schizza alle stelle.
Oggi credo che si sia arrivati ad un punto tale da aver saturato la possibilità di migliorare la qualità delle riproduzioni, a meno di non voler spingersi a rendere funzionanti dei motori in scala 1:43, quindi non so dire cosa ci aspetterà tra trenta o quarant’anni, comunque sarà interessante osservarlo.
O forse no, che un modello di una Tesla non interesserebbe neanche ad Elon Musk.
Riccardo, sono stupito, sempre più stupito dalla tua (mi permetto di darti del tu) capacità di analisi e dalla tua conoscenza del “nostro” mondo, soprattutto in relazione alla tua età ! Sembra proprio che quegli anni li abbia vissuti anche tu! Non posso spiegare tutto ciò se non attribuendoti una grandissima passione, oltre ad una grande intelligenza e ad una altrettanto grande sensibilità!
Grazie e grazie anche a David che ti ospita.
Qualche commento a margine. Dici che non vi era nulla di eclatante a livello di fedeltà. In genere è vero, le finiture era quelle che erano, ma certi Dinky France rendevano (e rendono tuttora) l’ idea del reale con grande efficacia. mi viene in mente la Chrysler Saratoga, con tutti i dettagli corretti e al posto giusto, comprese le tinte.
Il tuo esempio sulla mancanza di modelli di automobili “comuni” relativo alla Fiat 500 mi ha ricordato quanto fui sorpreso, nel 1969, quando vidi la pubblicità su Topolino della F della Mebetoys e della L della Mercury. Aspettavo una 500 da anni (in realtà qualcosa c’ era, ma la Mercury era 1/48, scala che poteva andare bene per i transatlantici americani, ma non per quella scatoletta, e la Spot On era di fatto introvabile, almeno qui in provincia, inoltre quelle luci anteriori tutte di pezzo manco mi piacevano…) e d’ improvviso eccone due versioni diverse, e anche molto dettagliate! Le comprai subito, il 13 e il 15 marzo del 1969.
Riguardo al fascino dei modelli moderni (lascio da parte le automobili vere moderne…) vorrei proporre una riflessione e, se ritenete, leggere il vostro parere. Allora ogni firma aveva una propria tecnologia e una propria filosofia, la stessa vettura veniva riprodotta in modi diversi, spesso tutti apprezzabili, ma che conferivano ai modelli dei tratti, un “carattere” particolairi. Insomma, si distingueva a prima vista un Corgi Toys da un Solido piuttosto che da un Pòlitoys ecc.
Al giorno d’ oggi la capacità di miniaturizzare è tale che i modelli dei vari produttori sono sempre meno distinguibili perché si avvicinano sempre di più la reale, che ovviamente è lo stesso per tutti. Se tutti riescono a riprodurre perfettamente una vettura, tutti i modelli saranno identici tra di loro e tanti saluti alla peculiarità del fabbricante. In questo aspetto, a parer mio, risiede buona parte del fascino degli obsoleti.
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Marco, mi accodo ai complimenti a Riccardo, della cui collaborazione sono onorato. Molto meglio di tanti stanchi tromboni che biascicano le stesse cose da anni, magari condendole di qualche voluta misteriosità per sembrare più intriganti. Passiamo ad altro: la parte finale della tua osservazione mi ha particolarmente solleticato. Proverei a buttarla lì dicendo che i modelli odierni non si distinguono più l’uno dall’altro non tanto perché ormai il grado di fedeltà raggiunge chissà quali estremi, ma più semplicemente perché le tecniche di prototipazione, di decorazione e di produzione derivano da matrici comuni, tutte cinesi. Le marche possono anche essere diverse ma il risultato, concettualmente sarà lo stesso o quasi. Senza contare che diversi marchi ricorrono agli stessi service tecnici fin dal momento della progettazione di ogni parte.
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Spero di non passare per vecchio trombone…
Ricollegandomi a quanto scritto David, l’appiattimento non è figlio di chissà quale traguardo tecnologico, ma tutto il contrario.
Non so se avete presente la finezza di certe Ferrari Herpa degli anni novanta, si può affermare che i modelli attuali (malgrado i trent’anni trascorsi) siano migliori?
Non direi proprio…
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Eccomi, scusate il ritardo ma ero impegnato a polverizzarmi scompostamente il malleolo esterno del piede destro, fatto ciò sono tutto vostro.
Vi ringrazio per i complimenti, vi lovvo, tutti, tranne i vecchi tromboni finti decadenti, ma nessuno di chi ha scritto finora è un esponente di tale dubbia casta.
Detto questo… Assolutamente si, un Solido lo vedevi al volo, e non solo un Solido in generale, ma vedevi al volo la differenza tra un Solido dei primordi e uno, ad esempio, di fine Serie 100: evoluzione senz’altro, ma anche e soprattutto “mano”, ed oserei dire “visione delle cose”, del prototipista, che nel primo caso era solito fare modelli sempre leggermente (un bel po’ in realtà) larghi, e nel secondo, presumibilmente credo fosse un’altra persona, faceva modelli esattissimi e rigorosi, equilibrati, senza un capello fuori posto.
E così vale per gli altri fabbricanti: i modelli cioè rispecchiavano la cultura e la visione delle cose di chi li faceva.
In un termine: tocco umano, che col CAD si è, manco a dirlo, rarefatto, ed è lo stesso ragionamento che abbiamo fatto più volte per gli speciali, dai Ruf “bombastici” a seguire.
I Mercury erano un po’ barocchi forse, pesantini, ma coloratissimi e solidi, i Corgi erano i più “giocattoli”, nel senso che erano pieni zeppi di gadget funzionali uno più affascinante dell’altro, e i Dinky, beh, erano austeri ed esatto: il mio discorso valeva più che altro per gli anteguerra, già la Serie 24 era molto fine per quanto semplice, per tacere delle meraviglie delle Serie 500 e 1400.
Sulle inglesi mi esprimo poco, come dicevo a David in altra sede mi sono più distanti culturalmente e le conosco meno: io nasco bambino contatore di Modelli H, 2CV e 4CV abbandonate nei campi durante i numerosi viaggi in Francia coi miei negli anni ’90 (e ce n’erano un fottio, soprattutto in Corsica) quindi per me trovare i modelli di “quelle” macchine contemporanei a “quelle” macchine, beh… Diciamo così: anche la ruggine sui fondini in lamiera li ha un suo perché.
Le inglesi mi piacciono, certo, ma non le ho vissute e non mi scatenano quelle vibrazioni primordiali delle francesi.
E poi, non ho mai digerito le gomme dei Dinky inglesi, con quel battistrada inutilmente tassellato, neanche fossero tutte Land Rover.
Ad ogni buon conto, il modello oggi è mera questione di numeri, anche se devo dire che resiste purtuttavia un certo family feeling a seconda del produttore: un Minichamps diecast, di quei pochissimi, si riconosce al volo da un Ixo o da uno Spark in resina.
È comunque un dato di fatto che ci si stia omologando pesantemente anche nel nostro settore.
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Riccardo, un certo family feeling è rilevabile fra alcuni brand, ma devi cercarle appunto fra marchi molto diversi fra loro come concezione o fascia di prezzo. Prendi invece il settore dei resincast in 1:18 che in questo sito non sono troppo trattati: troverai miriadi di marchi, facenti capo a committenti europei diversi (soprattutto italiani e tedeschi) ma sviluppati da quei tre o quattro service che vanno per la maggiore e che non solo (ovviamente) ingegnerizzano allo stesso modo ma scelgono i colori per la “deco” con gli stessi criteri e gli stessi codici RAL; fanno le decals con lo stesso stile, usano le stesse colle e naturalmente le stesse scatole, più o meno rileccate secondo il prezzo finale, ma sotto sotto sempre quelle sono. Ho una certa esperienza in questo campo, per ora mi limito a fornire queste indicazioni generali ma spero che il concetto sia chiaro.
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Standardizzazione, come nelle auto vere, dove ormai si creano questi giganteschi conglomerati che fanno condivisioni di sinergie… Altro preoccupante indicatore dei tempi bastardi che viviamo, ma forse ci farò un pezzo, che mi pare il caso.
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