La prima hypercar? L’Alfa Romeo 33 Stradale

di Riccardo Fontana

Il regolamento Hypercar, tra i molti spunti di assoluto interesse che offre, prevede anche la costruzione di venti auto stradali immatricolabili direttamente derivate da quelle impegnate in gara, e questo costituisce con ogni probabilità uno dei fattori di maggior interesse presso il pubblico: indipendentemente dal costo e dall’effettiva possibilità di acquistare una Ferrari 499P, una Toyota GR010 o una Glickenhaus 007, che è giocoforza più teorica che pratica per il 99,9% degli abitanti del pianeta terra, solo l’esistenza di un piccolo lotto di queste auto regolarmente targabili concorre a renderle ancora più “sognabili”, in un qualche modo indefinito più “reali”, vicine, meno naif nel loro essere  siderali oggetti dalle prestazioni estreme.

Prendiamo ad esempio la Porsche 917 K del Conte Rossi per cercare di dare un volto più pratico a questa sensazione: vedere una 917K nel suo habitat naturale, e cioè in gara a Sebring piuttosto che a Le Mans, è fantastico e foriero di mille buone “vibrazioni”, ma vederla ritratta nel traffico tra decine di auto normali è tutta un’altra storia, ed amplifica se possibile ancor di più l’aura ufologica che l’accompagna, e lo stesso poteva dirsi per la manciata di Dauer 962 regolarmente circolanti che hanno visto la luce una ventina di anni dopo.

Sport-Prototipi stradali le Hypercar, com’era già successo in maniera praticamente identica con il regolamento GT1 di metà-fine anni novanta, ma qual è stato il primo vero caso analogo della storia?

Molto semplicemente, l’Alfa Romeo 33 Stradale.

LA NASCITA

A metà degli anni ’60, qualcuno all’Alfa Romeo si accorse che, dato l’allora nemmeno lontanissimo glorioso passato della casa del Biscione, correre ad alto livello poteva essere un’ottima opportunità per accrescere ancora di più un prestigio già enorme: la Giulietta prima e la Giulia poi si erano fatte, i conti dell’Alfa erano nel pieno dell’unica fase contraddistinta dal segno “+” di una centenaria storia di debiti, e dunque c’era relativa abbondanza di fieno in cascina per fare delle cose.

Giuseppe Luraghi optò per correre (andò anche vicino a riportare la Ferrari all’ovile, ma questa è un’altra storia, che forse racconteremo più in là) e per fare l’Alfasud: l’IRI gli approvò entrambe le idee, anche se forse sulla seconda sarebbe stato meglio pensarci un attimo.

Si iniziò quasi in sordina con l’Autodelta di Carlo Chiti e Lodovico Chizzola come reparto corse esterno, talmente esterno da essere ubicata in un piccolo sobborgo di Udine – Feletto Umberto – a quasi 400 km da Milano, che divenne praticamente subito una prelatura ufficiale dell’Alfa: si correva e si vinceva con le TZ e le Giulia GTA, e si vinceva moltissimo, ma il massimo della risonanza delle gare dell’epoca era tutto per le corse di durata, per le quali non esisteva una vettura da lanciare nella mischia.

Non esisteva, ma c’era “l’Ingegnerone” a disposizione ad Udine, e non ci volle molto perché Carlo Chiti approntasse una versione portata a due litri del V8 1500 che aveva disegnato pochi anni prima per la sciagurata ATS di Formula Uno, con cui motorizzare uno strano telaio ad H in magnesio che aveva visto la luce al reparto esperienze del Portello ad opera di Giuseppe Busso ed Orazio Satta Puliga.

Da questo innesto venne fuori la prima 33, la famosa “Periscopica” o “Tipo Fléron”, dal nome della prima cronoscalata che corse e vinse nella stagione del debutto, il 1967.

In realtà quel primo embrione di 33, per quanto stupendo e potentissimo, non brillava particolarmente per competitività, così complicato da mettere a punto e difficile da guidare com’era, ed a parte qualche sporadica affermazione in gare relativamente minori furono ben poche le soddisfazioni che seppe portare in dote al Biscione: Chiti fu costretto a ridisegnarla praticamente tutta fatto salvo il motore, ed il risultato, la 33 cosiddetta “Daytona” del 1968, fu una vera dominatrice della classe duemila, ma questa è ancora un’altra storia.

L’Alfa Romeo degli anni ’60 non era seconda a nessuno in termini di comunicazione e marketing, e senza che nessun regolamento tecnico lo imponesse si pensò quasi subito di mettere in cantiere una micro-serie di 33 stradali derivate dalla “Fléron”, da utilizzare come vetrina tecnologica e, perché no, per riportare la Nobile Alfa Romeo ai fasti degli anni ’30, quando i suoi 6 ed 8 cilindri facevano levare il cappello ad Henry Ford.

All’Autodelta, nel frattempo trasferitasi da Feletto Umbertide a Settimo Milanese, si allungò leggermente il passo del telaio ad H per migliorare l’abitabilità interna, e si depotenziò leggermente il V8 due litri, facendolo passare dai 270 CV della versione da gara a poco più di 230.

Alla linea pensò quel Franco Scaglione che già aveva regalato una mise alla Giulietta Sprint, ed il risultato fu la 33 Stradale, che fu presentata nella cornice del Gran Premio d’Italia di Formula Uno del 1967.

LA 33 STRADALE

L’auto era visivamente diversa dalla 33 da gara da cui tanto strettamente derivava a livello meccanico: in primo luogo era un coupé invece di una barchetta, ma esteticamente aveva un suo smaccato e personalissimo stile che la rendeva unica, tanto da farla annoverare ancora oggi come una delle più belle automobili mai costruite.

Era estrema, preziosa e costosissima, molto più della più costosa delle Ferrari stradali a listino all’epoca del suo lancio, ed era quanto di più vicino ad uno Sport Prototipo fosse possibile acquistare al tempo, un po’ com’era stata la 2300 8C del 1931 oltre trent’anni prima.

Non è che fosse simile ad uno Sport Prototipo la 33, lo era proprio uno Sport Prototipo, dalla punta del muso all’ultimo millimetro della coda.

Ne furono prodotte solo diciotto (ironia della sorte, quasi lo stesso numero legale che oggi è previsto per la concessione dell’omologazione nel regolamento Hypercar), praticamente tutte diverse l’una dall’altra: la Carrozzeria Marazzi, incaricata dall’Alfa della costruzione delle carrozzerie e dell’assemblaggio, stentava a barcamenarsi al meglio con un lavoro così difficile ed estremo, e Franco Scaglione dovette supervisionare personalmente la preparazione di ognuno degli esemplari prodotti.

Tutte diverse le 33 prodotte, ed infatti non si trovano due esemplari con cofano, rifiniture, fari anteriori od altri dettagli minori completamente uguali tra loro, nemmeno sul colore vi fu piena uniformità, e la si mancò per un pelo: furono infatti tutte verniciate nel classico Rosso, tranne quella del Conte Agusta, rifinita di un bellissimo blu.

La 33 riuscì senza dubbio nel suo intento di vetrina tecnologica e cassa di risonanza ed ostentazione del prestigio di casa Alfa Romeo, per quanto nell’immediato futuro si preferì puntare si sul suo V8 di così nobili origini, ma inserendolo in un contesto tecnico comunque ottimo ma più “normale”: fu così che nacque quell’altro capolavoro della Montreal ma anche questa, tanto per cambiare, è un’altra storia.

ANALOGIE E DIFFERENZE CON L’OGGI

Allo stesso modo in cui la 33 era diversa dalle sue sorelle puramente corsaiole pur essendo uguale per meccanica ed indole, anche alle Hypercar stradali di oggi non si richiede un’assoluta aderenza a quanto portato in pista dai costruttori: la Glickenhaus stradale, infatti, è prevista con tre posti e con una potenza maggiore di quella del Prototipo da competizione, che è plafonata per regolamento a 680 CV complessivi.

Sono il concetto e la base che devono rimanere, l’assoluta verosimiglianza non è una conditio sine qua non, ed è forse questo il punto di maggior contatto ideale tra la 33 che da spider seppe farsi berlinetta da sfilata e le Hypercar attuali, sempre e comunque all’insegna della tecnica più sfrenata e delle nobili origini pistaiole.

Nella foto di apertura, una 33 Stradale al Museo Alfa Romeo ad Arese (foto David Tarallo).

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