testo e foto di Riccardo Fontana
Come abbiamo già scritto molte volte in passato, uno degli elementi fondamentali nel giudicare un modello è quello strano e vagamente indefinibile rapporto tra fedeltà di riproduzione e periodo storico di produzione dello stesso, un fatto che inevitabilmente concorre a definire il je ne sais quoi che costituisce buona parte del fascino di una riproduzione in scala di una vettura reale: ci sono modelli che invecchiano male, altri che invecchiano meglio, ed altri ancora che invecchiano benissimo, tra cui i nostri amati Solido ma, forse ancor più, i Rio.
Ecco, i Rio: nati verso il 1962 da un esperimento modellistico che visto con gli occhi di oggi potrebbe sembrare bizzarro per i soggetti trattati (auto da fine 1800 agli anni ’30 del ‘900) ma che allora non lo era affatto (basti pensare che in concomitanza nascevano i veteran APS-Politoys, i Corgi Classic, i Models of Yesterday Lesney e, soprattutto, i Dugu Miniautotoys ed i Solido della Serie Age D’Or), i Rio si segnalarono immediatamente come modelli atipici, ricchissimi di dettagli riprodotti con estrema finezza e secondo una ricerca storica assai rimarchevole.
La ricerca storica alla base di modelli come i Rio, che con l’estrema profusione e facilità di mezzi e fonti cui siamo abituati oggi potrebbe apparire tanto difficile da scoraggiare i più (pensiamo solo alle paginate e paginate di forum francesi e non consumati dagli “infiltrati” Spark per cercare di reperire foto attendibili dell’Alfa Romeo 8C di Nuvolari della 24 Ore di Le Mans 1932), in Rio veniva condotta in maniera estremamente efficace – seppur con gli ovvi limiti ed errori del caso – in un’epoca in cui di elettronico non c’erano neanche le accensioni delle macchine, documentazione ce n’era pochissima e di difficilissima reperibilità, e la fonte primaria di informazione era recarsi in prima persona nei musei dedicati alle auto storiche, primo fra tutti il Carlo Biscaretti di Ruffia di Torino (a cui Dugu dedicò addirittura una serie di automodelli), con risultati tutt’altro che disprezzabili, e con la creazione di modelli che, osservati secondo spirito critico e canoni tipici del 2023, appaiono tutt’altro che superati.
Tutt’altro che obsoleti.
Già, perché se pensiamo ai tipici automodelli dell’epoca dei primi Rio, quindi del triennio che va dal 1962 al 1965, automaticamente il pensiero va a modelli come la Fiat 2300S Mercury, la Giulia TI Dinky France, o l’Aston Martin DB5 Solido: modelli bellissimi ed estremamente fini, ma anche semplicissimi, con le ruote tornite (a parte la DB5 Solido che aveva dei rudimentali cerchi a raggi), gomme costituite da anelli di gomma a sezione tonda o solo vagamente dotati di battistrada, e carrozzerie magari apribili ma “monolitiche”, con cioè fari, calandre e – spesso – paraurti integrati nello stampo.
Modelli che, pur restando strepitosi e ricchi di un fascino sconosciuto al 90% della produzione odierna, sono invecchiati, se per ciò si intende il dimostrarsi legati all’epoca di appartenenza.
Ecco, i Rio (ed anche i Dugu Miniautotoys, ma ci torneremo) no: radiatori estremamente elaborati con inserti separati e fregi, fari ad acetilene con lente a parte, clacson a trombetta, balestre, targhe in rilievo finemente rifinite e ruote finissime e con battistrada estremamente fedele contraddistinguevano questi modelli, che molto difficilmente potevano essere inquadrati come un qualcosa di sospeso a metà tra il giocattolo ed il modello da collezione per collezionisti adulti ma – almeno nelle intenzioni del produttore – si andavano a porre decisamente nella fascia del puro collezionismo, come la scritta “Automobili d’epoca per collezionisti”, che campeggiava in tre lingue sulle scatolette di cartone, stava a dimostrare.
Inizialmente i modelli, abbastanza costosi rispetto alla media della produzione nazionale, venivano presentati in scatolette di cartone di vari colori, con solo il foglietto descrittivo della vettura riprodotta a corredo, esattamente come un Dinky o un Solido coevi (ed è uno dei fatti che più concorre a ricordare di trovarsi al cospetto di un obsoleto, quando si incontra un Rio del primo periodo) salvo poi guadagnare una teca trasparente divisa verticalmente alla fine degli anni ’60, in cui il modello veniva tenuto fermo da una striscia di spugna, e che trovava comunque posto assieme al foglietto illustrativo in scatolette di cartone analoghe ma, giocoforza, leggermi più grandi delle precedenti.
Un fatto interessante, apparentemente in contrasto con quanto detto finora che però è innegabile, è rappresentato dalla estrema facilità con cui si incontrano i Rio sia nelle borse scambio che nei negozi specializzati che, soprattutto, nei normali mercatini del fine settimana, dove spesso si possono trovare esemplari giocati ed incompleti, a testimonianza di un passato di gioco del tutto simile a quello dei classici obsoleti, e questo per via del fatto che per quanto nelle intenzioni (e nei fatti) si trattasse di modelli puramente da collezione esattamente come degli odierni Spark, in realtà mancava proprio la cultura del collezionismo di automodelli slegato dal gioco nella società, e quindi per quanto costosi, complessi, fragili, e tutto sommato lontani dai gusti della stragrande maggioranza dei bambini degli anni ’60 (ma non dei loro genitori e soprattutto dei loro nonni, ma ci arriviamo) spesso e volentieri i Rio venivano comunque acquistati e regalati con fini di puro gioco.
Ed a questo punto occorre soffermarsi finalmente sui soggetti: come può venire in mente ad un produttore di die-cast di lanciarsi con così tanta convinzione su soggetti apparentemente così tanto “di nicchia” come le veteran dei primordi del ‘900?



In primis, le veteran dei primordi del ‘900 nel 1962 erano meno veteran di quanto oggi non lo siano una Giulietta TI o un’Aurelia B20 di metà anni ’50: come sempre, i tempi cambiano e troppo spesso si tende a dare per scontate cose che sono lontanissime dall’esserlo, ed in secundis se è vero che un bambino del 1962 avrebbe gradito molto di più un modello della neonata Giulia 1600 o della Citroën DS, suo nonno tendeva a regalargli molto più volentieri il modello di una macchina storica, che spesso definiva “seria”, cioè quelle di quando lui stesso era ragazzo, cioè quelle prime automobili che scioccavano completamente coloro che, provenienti da un mondo contadino o comunque cittadino ma legato a canoni ottocenteschi, se ne trovavano per la prima volta una dinnanzi: nel 1915 l’automobile poteva essere la normalità per certe famiglie dell’altissima borghesia o per le case regnanti, ma in un mondo in cui chi aveva il carretto trainato dall’asino era un fior di benestante, rappresentavano qualcosa di assai simile allo space shuttle, quindi i bambini di allora tendevano a regalare molto più spontaneamente una Itala della Parigi-Pechino, un Fiat 18 BL Omnibus della linea Firenze-Poggibonsi-Volterra o anche solo una Balilla ai loro nipotini, che naturalmente ci giocavano fino – assai spesso ed assai presto – a distruggerle.


Oggi i Rio non spuntano quotazione altissime, anzi è possibile trovarne di ottimi a pochissimo prezzo, anche perché se loro, intesi come modelli, sono invecchiati benissimo, le auto che riproducono sono invecchiate decisamente peggio, perdendo moltissimo del “mordente” che esercitavano sugli appassionati: come sempre, si tende a collezionare ciò che ci colpisce, e di persone direttamente colpite dalle auto di inizio ‘900 non ce ne sono più.



Esistono comunque coloro che, bambini negli anni ’60, coi Rio ci giocavano, e quelli strani (tipo chi scrive) che collezionano certi modelli un po’ per rivivere dei momenti perduti ed un po’ perché affascinati dalla contestualizzazione storica dei modelli e dalle tecniche riproduttive che li caratterizzano, nonché dalle stesse auto riprodotte.



Rio esiste comunque ancora, e riproduce ancora dei modelli assai strettamente derivati dai primi degli anni ’60, con solo pochissime modifiche per renderli ancora più attuali, segno che comunque una cerchia di appassionati del genere esiste ancora.
E per fortuna, oseremmo dire.




Sono stato bambino negli anni Sessanta e ho posseduto e semidistrutto diversi modellini della Rio (mio padre, con mano pietosa, raccoglieva i resti in una scatola, che ho ancora). In effetti, c’era una distonia tra il livello qualitativo alto dei Rio (su alcuni modelli i paraurti erano in vero lamierino…) e l’ esigenza ultima del bambino che era quella di giocarci. Ed è vero che, sempre nell’ ottica di un bambino, ritrovarsi tra le mani una riproduzione di una Fiat d’ inizio secolo non era così stimolante come giocare con una Corgi, tanto per fare un nome. Dunque, mi ritrovo totalmente con quanto scritto dal signor Riccardo Fontana.
P.s. Il bambino in questione, in età di intendere e di volere , ha poi riacquistato i Rio andati distrutti o dispersi da piccolo. Erano gli anni Ottanta, e un negozio ne aveva ancora un discreto numero, tutti nuovi, con la confezione in cartone colorato, la teca in plastica trasparente tagliata a metà e il nastro di gommapiuma a proteggere il modellino. Pian piano, ho acquistato tutti quelli disponibili, con, ricordo, grande felicità del negoziante che prima di me non aveva mai avuto richieste per quegli strani modellini di inizio Novecento…
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Grazie della bella testimonianza. Io invece, che sono stato bambino negli anni settanta, ho avuto ugualmente le prime esperienze collezionistiche con i Rio, esattamente secondo le stesse logiche. I primissimi Rio, i miei genitori e i miei nonni iniziarono a comprarmele nel 1977, prendendoli quasi solamente da Dreoni a Firenze. Erano visti, anche da chi non si intendeva di modelli, come roba “seria”. A me non è che dispiacessero, ma già sognavo i kit Solido “con versioni che in Italia non si trovavano” (in realtà non lo sapevo, ma stavo parlando di transkit) e le March diecast di John Day. All’epoca, comunque, giocavo ancora con i modelli che mi regalavano, ma con i Rio giocare era ben difficile, e in effetti rimasero pressoché intonsi. Via via che uscivano, i miei me li regalavano e continuarono a farlo fino al 1979-1981, quando iniziai a oppormi volendo solo kit e diecast tipo Solido e Luso Toys, meglio se da competizione. I Rio, però, sono rimasti sempre con me, anche se hanno perso sin da subito gli involucri di cartone, conservando le teche in plastica trasparente e i bigliettini descrittivi. Negli anni ottanta iniziai un po’ a rivalutarli, specialmente quelli più moderni o teoricamente più coerenti con i miei interessi, tipo le Alfa da competizione, ma anche la Balilla o l’Alfa 1750 Berlina, che ormai erano considerate dei classici. Di recente, poi, ho ripreso dei Rio della produzione più recente, perché sono modelli che hanno continuato ad attirarmi. Ricordo poi quando uscì la Giulietta Berlina, che acquistai da Teorema in Via Martelli a Firenze; ho altri modelli Rio in collezione, come alcune Fiat 128, ma mi sono ripreso anche delle versioni aggiornate dei vecchi modelli vintage.
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Vorrei anche aggiungere un particolare: il Fiat 18BL della linea Firenze-Poggibonsi-Volterra è uno di quei modelli che nella vetrina del collezionista anni ’70 (eclettico quanto mai, anche per ragioni terra terra) non poteva mancare, magari accanto a modelli 1:24 o ai Togi.
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In effetti, il Fiat 18BL è in mio possesso: per qualche ragione, è irresistibile. Così come, secondo me, lo sono la Grande Mercedes con sospensioni a molla funzionanti, l’ Alfa Castagna con portiera apribile ( un monovolume ante litteram ) e la stessa Alfa 1750 ( ne ho due ).
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Mi fa molto piacere leggere questo articolo su di in marchio purtroppo trascurato, che, insieme a Dugu, ci ha permesso di mettere in collezione tante vetture dell’ epoca pionieristica. Lo facevano anche altri, soprattutto in Francia, ma con livelli qualitativi ben più bassi.
E’ vero, soprattutto all’ inizio la ricerca della fedeltà e l’ aspetto storico erano curati e costituivano una novità nel panorama dell’ automodellismo. Non ricordo altre marche che arricchivano il modello con un foglietto di note storiche.
Negli anni ’70 si incominciò a perdere qualche colpo, ma è una delle pochissime aziende storiche che sono arrivate ai nostri giorni.
La produzione attuale è a volte un po’ troppo disinvolta, vedi la varie Bianchi e Lincoln trasformate in Mercedes Benz, magari anche del 1910, 16 anni prima della fusione tra Daimler e Benz, ma presenta anche nuove versioni di notevole interesse e anche qualche inedito del primo anteguerra, di tanto in tanto.
Spero che l’ avventura continui ancora a lungo!
PS l’ Alfa Romeo 1750, n.19 di catalogo, in realtà mi risulta essere una 6c 1900 del 1933 e precisamente l’ esemplare conservato ad Arese e targato TO 43480, se non sbaglio.
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