La nazionalità dei modelli intesa come anima

di Riccardo Fontana / foto di David Tarallo

Uno degli aspetti più nascosti – ma anche innegabilmente gustosi – di quel meraviglioso microcosmo costituito dall’automodellismo, è rappresentato dal “senso della nazionalità” che intrinsecamente un modello sa offrire, spesso già solo ad una prima occhiata semi-distratta, quel qualcosa che ti fa dire “ecco l’Italia del boom”, oppure “ecco la Francia degli anni settanta”, quasi a pelle, in maniera semi-indefinita ma, spesso, estremamente appropriata.

È, tanto per cambiare, l’ennesimo aspetto in via di cancellazione da parte del moderno avvento non tanto delle nuove tecniche produttive legate all’informatica, quanto piuttosto dalla delocalizzazione verso l’estremo Oriente, che ha ridotto un gigantesco crogiolo di usi e consuetudini estremamente variegati ad una poltiglia informe di prodotti senza identità.

C’era un tempo in cui, approcciandosi ad un Norev in rhodialite, si poteva “respirare” la Francia degli anni ’60, con quei modelli dotati di sospensioni morbidissime e le targhe nere coi caratteri in rilievo, così come coi Dinky – rappresentati però di un lato più austero e meno “ruspante” dell’Esagono – e coi Solido, l’anima “Racing” degli incondizionati d’oltralpe di Le Mans e delle corse automobilistiche in generale.

Lo stesso identico ragionamento si poteva applicare alle produzioni inglesi (cosa ci poteva essere di più inglese di un Dinky inglese o di un Corgi? Uno Spot-On, ad esempio) o italiane: guardando una 600 Politoys o una 850 Mercury ci si immerge nell’era del primo benessere italiano, quella dei tardi anni sessanta, quella in cui – aldilà di tante storie romanzate che i media dei giorni nostri tendono a propinarci retrodatando il tutto di un decennio – per una famiglia di estrazione popolare iniziava ad essere lecito pensare di affiancare al Motom 48 o alla Vespa un’automobile.

Ecco, gli automodelli, che erano espressioni di esseri umani “immersi” nella realtà costituita da quelle auto e non di cinesi strappati al restauro di vasi Ming, riuscivano per qualche ragione se si vuole anche difficilmente qualificabile a rendere il modello in maniera pressoché perfetta, rendendo bene anche la società che dell’auto reale costituiva l’humus.

La testimonianza involontaria di uomini e di epoche che i modelli si portano dietro è uno dei (buoni) motivi per i quali si collezionano modelli obsoleti e i modelli speciali, che in un certo senso traspondono il concetto alla modernità, non essendosi ancora staccati dalle logiche concettuali puramente artigianali che pur avevano animato le produzioni industriali del tempo che fu: così come negli anni settanta un M.R.F. o un AMR erano immediatamente riconducibili alla loro nazione per il “sentore” che inevitabilmente emanavano, così un Bosica lo era per il nostro paese, ed oggi è ancora così, con un Marsh così smaccatamente inglese ed un Carrara o un Madyero così italiani.

Il discorso è sempre il medesimo: i modelli sono in buona sostanza oggetti inutili, se non – e qui sta il rovesciamento completo dell’inutilità che si erge ad utilità – per le emozioni che sanno scatenare, per l’evocazione che spontanea esce allo scoperto fin dalla più timida attenzione che viene loro riservata.

Anche i modelli, a modo loro, sono un modo per esercitare della socioeconomia e della storia contemporanea, degli spunti di riflessione per capire chi siamo e, soprattutto, chi eravamo e chi – forse – non riusciremo più ad essere.

O forse no?

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