di Riccardo Fontana
Arrivati ad un’età – ad assoluta discrezione dei lettori – occorrerebbe iniziare a farsi qualche domanda circa il senso della vita, seguendo un range che potrebbe andare dal solito ed inflazionatissimo “chi siamo e dove andiamo?” ad un più utile, umile, ma anche raggiungibile “cosa mi piace fare davvero?”
Ecco, prendendola un po’ larga, inizio questo articolo di risposta al bel pezzo di Roberto D’Ilario sull’evoluzione del motociclismo di qualche giorno fa1, dove il buon Roberto sì autodefinisce “vecchio” e, forse, anche in una qual misura nostalgico di un certo modo di intendere la moto forse passato, slegato e distante dai tempi – opinabili – che stiamo vivendo.
Nonostante io sia abbastanza giovane (classe 1992) a dispetto di una capigliatura sempre più argentata in pieno stile Zorro Plateado (me piacerebbe…), dichiaro solennemente di essere pienamente d’accordo con quanto detto da Roberto, ma siccome l’occasione è troppo ghiotta per non sfruttarla, la colgo per dissertare qua e là, data la validità degli spunti trattati nel suo articolo.
In primis, bisogna appunto rendersi conto di cosa si voglia davvero, in questo caso in termini motociclistici: messo su una moto (da minicross) ad otto anni da un genitore bonariamente degenere, nasco e cresco smanettone assatanato, e pure molto veloce a giudicare dai (comunque pochi, a causa dell’irrefrenabile avversione dello stesso genitore di cui sopra all’idea che io corressi) riscontri cronometrici avuti sin qui.
Smanettone assatanato e, naturalmente, “terraiolo”, ovverosia endurista, data la stazza da corazziere decisamente penalizzante nel motocross ed una mai sbocciata passione per i salti: tuttora, nonostante un vago appesantimento fisico, resto convinto che guidare di traverso sia una delle cose più belle che si possano fare da vestiti, mi viene ancora bene farlo, e di tanto in tanto mi piace fare le spiagge del Po o gli argini maestri dei grandi fiumi della pianura padana andando forte: un modo casereccio e – se vogliamo – a buon mercato di vivere i propri 5 minuti “alla Stéphane Peterhansel”.
Mi piace ancora andare forte quindi, e molto, ma ho imparato con gli anni ad avere una visione delle cose molto più sana, aperta e, forse, matura.
Andare forte, che vuol dire andare forte in pista o in posti dove non c’è nessuno e non si rischia di fare del male a nessuno se non a sé stessi, è un fatto puramente sportivo: si va a guidare un KTM 250 “a manetta” come si andrebbe a giocare a tennis o a calcetto, e la moto “da corsa”, leggerissima, potente, cattiva e brutale, diviene appunto assimilabile ad uno strumento sportivo come una racchetta o un paio di scarpe da ginnastica.
Ci si diverte e si gode delle proprie eventuali capacità di guida quindi, e si fa anche un monte di fatica fisica, se è vero com’è vero che un vecchio articolo di un gruppo di medici dello sport dell’università di Berkeley classificava il fuoristrada in moto come il secondo sport più faticoso al mondo dopo il football americano (ed al sesso, sulla cui effettiva classificazione a sport, comunque, vi sono pareri contrastanti).
Tutto molto bello, ma come ho detto gli anni portano le idee a cambiare, a variegarsi, e ad evolvere, e quindi cos’è veramente il bello della moto?
Il bello della moto, per il Riccardo trentunenne di oggi, è prendere una moto tranquilla, tipo una Yamaha Ténéré 700, caricare una ragazza, e fare le strade sterrate militari in quota, come quella del Col dell’Assietta nel torinese, al confine tra Italia e Francia.
E stare insieme, e farle vedere dei panorami della madonna in tranquillità, senza fare inutilmente lo scemo suicida con qualche amico altrettanto cretino.
Lo sport dà padronanza, e la padronanza dev’essere usata per muoversi sicuri quando si sta nel traffico: l’unica cosa che si può vincere sulla strada è il premio per la lapide più bella del cimitero, e nonostante la vita ce la metta tutta per rendersi odiosa alle volte, è comunque troppo bella per essere abbandonata prematuramente.
Senza contare che, ricollegandoci a quanto sopra, sbattere una povera creatura tanto ardimentosa da seguirci in un letto d’ospedale non mi sembra esattamente il modo migliore di fare breccia nel suo cuore.
Ho sempre capito pochissimo le moto stradali: mi sembra una perfetta imbecillità guidare dei missili da 180 kg per 240 CV (vedi Ducati Panigale V4) su strada, e mi sembra ancora più inutile questa corsa tipicamente in stile “bulli da bar” a chi ha mezzo CV in più dell’altro.
Ma poi cosa ci si dovrà mai fare con mezzo CV in più? Andiamo a lavorare con dei SUV da due tonnellate con dei motori asfittici, tre cilindri, con poco più di 100 CV, e per andare al lago la domenica pretendiamo di possedere dei razzi col doppio della potenza spalmata su un decimo del peso.
Follia.
Aggiungendo follia alla follia, siccome la fisica è per sua stessa definizione non ingannabile e foriera di numerosi limiti, queste potenze mostruose vengono gestite da elettroniche evolutissime: in poche parole, siete convinti di guidare e invece siete vivi solo perché guida il computer al vostro posto.
Siete convinti di scopare, e invece state spiando Rocco Siffredi che scopa al vostro posto2.
L’unica cosa che resta di tanta inutilità sono dei costi di acquisto ed esercizio estremi e, cosa ancora più odiosa, bolli ed assicurazioni elevatissimi: gli unici che realmente godono dell’acquisto di R1, Panigale, GSX-R e chi più ne ha più ne metta sono i politici di Roma che possono continuare a girare con le narici rifoderate d’oro a spese vostre.
Dice Roberto D’Ilario che chi guida una moto deve avere la percezione di ciò che fa e della conseguenza delle sue azioni, e questo è verissimo: l’elettronica filtra, a volte è salvifica, ma da una falsa sensazione di sicurezza a troppi fruitori cascati per sbaglio dalla BMW X1 con cui vanno in ufficio alla moto, e questo paradossalmente può rivelarsi anche più pericoloso della completa assenza di aiuti alla guida, che inducono naturalmente a più miti consigli.
Tante volte ho sentito definire la mia ultima moto, cioè il Yamaha Ténéré 700, come troppo lenta e troppo piccola per viaggiare in due, e francamente ho sempre più la sensazione di trovarmi in un mondo che non capisco: a parte il fatto che mia madre e mio padre si sono fatti una settimana di viaggio di nozze sulle Dolomiti con un’XT 600 monocilindrica da 40 CV del 1984 (1,88 mio padre, 1,75 mia madre), ma poi vorrei capire perché il Superténéré 750 del 1990, 220 kg per 70 CV (preso nuovo dal Vecchio all’epoca e tutt’ora con me) sia stato per più di 10 anni la maxienduro più veloce del mondo, mentre suo nipote, il Ténéré 700, 200 kg per 75 CV, sia considerato poco più di un giocattolo: 200 kg per 75 kg… Beh, per dare un’idea del rapporto peso-potenza e quindi delle prestazioni (peraltro senza nessun aiuto elettronico), è l’idem che se la vostra Volkswagen Polo da una tonnellata e due avesse 450 CV invece degli 80 che ha.
E vorreste di più? Ma per fare cosa? Per correre più veloci al pronto soccorso? Sapreste guidarla una Polo da 450 CV senza ammazzarvi all’istante?
Sulla strumentazione del Ténéré 700 all’inizio della nostra conoscenza ho visto comparire – in un amen tra l’altro – un terrificante 170 km/h: ho mollato il gas perché continuare sarebbe stato un affare da deficienti globali, ma volendo avrebbe potuto andare ancora – e parecchio – più forte, ed ero sull’argine maestro sterrato del Po, non in autostrada (chiedere ad Alessandro Botturi che all’ultima Africa Eco Race con la stessa moto solo leggermente elaborata ha vinto una tappa veloce in Marocco a 147,9 km/h di MEDIA).
Il motociclista medio deve sentirsi virile guardando il numero dei kW sul libretto del cavallo d’acciaio, ma vuole il cambio elettronico perché non sa cambiare, e il controllo di trazione perché – in fondo in fondo – lo sa anche lui di fare uno sport che non è il suo, ma la virilità si dimostra in altri contesti, certamente diversi da una moto, che al più può facilitare l’approdo verso certi lidi.
Detto ciò, il fiorire di moto “semplici” come il Ténéré stesso, l’Aprilia Tuareg, la Honda Transalp, la Ducati Desert-X, e molte altre nate su idee paritetiche, sembrerebbe indicare una certa voglia di tornare alle cose semplici e decontratte da parte di una grossa fetta dell’utenza, e questo, francamente, può solo essere un bene.
Non è detto, quindi, che la ricerca di semplicità sia solo un affare per vecchi: io probabilmente sarò anche un giovane vecchio, ma come me iniziano ad essercene veramente tanti.
Forse troppi perché sia solo un caso.
foto di apertura: Il padre di chi scrive poco prima della vetta del Monte Chaberton, nel settembre del 2004, in uno scenario marziano
- https://pitlaneitalia.com/2024/01/29/motomorfosi/ ↩︎
- Succede anche a uno che conosco bene ma oknonlonominonondiconullacontinuatealeggerescherzavo. Non è una figura retorica, non sono io (nota del redattore di ritorno da Parigi ancora più sclerato del solito) ↩︎

Riccardo, ti ringrazio tantissimo per gli apprezzamenti espressi sul mio conto, sono molto contento di constatare che qualcuno abbia una visione simile alla mia. Il tuo articolo è un’ulteriore evoluzione del concetto, ottime riflessioni che sottoscrivo totalmente. Tra l’altro anch’io sto riavvicinandomi al fuoristrada e sto pensando di prendere la nuova Yamaha 700 oppure la vecchietta XRV Africa Twin. Però c’è una Bimota Furano che mi sta facendo l’occhiolino…la metterà in salotto, lo prometto.
Robix
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Ve le lascio volentieri. Se da ragazzino mi sono mezzo rovinato con una Carnielli Leopard MX3 (che ho ancora in garage!) vi lascio immaginare cosa avrei potuto fare con una moto.
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