Tamiya Masterwork

testo di Riccardo Fontana

Dopo tanto dissertare su speciali ed obsoleti, è venuto il momento di trattare qualcosa di nuovo, di relativamente sconosciuto, e di indubbio fascino: i modelli Tamiya della serie Masterwork Collection.

I Masterwork rappresentano a tutti gli effetti un unicum nel panorama mondiale del modellismo, ma di cosa si tratta in buona sostanza?

Un Masterwork è un’entità moderna ma antica allo stesso tempo, un qualcosa di sospeso a metà strada tra cultura dei figurini degli anime rifiniti a mano e lo Starter factory built degli anni ottanta, concepito però con un’esattezza e, oseremmo dire, un’asetticità incredibili, secondo un modo di vedere le cose estremamente giapponese, per sua stessa natura distante in maniera siderale e forse inconciliabile dal nostro: si tratta letteralmente di kit presi dalle serie Tamiya ordinarie – siano essi riferiti a moto, auto, carri armati o quant’altro – e montati a mano da abilissimi montatori senza aggiungere nulla alla base, ma prestando una cura al limite dell’ossessivo-compulsivo alla verniciatura ed agli accoppiamenti, con dei risultati incredibili in termini di bellezza e – stavolta è proprio il caso di dirlo – anche di fedeltà al vero.

A questo punto, però, occorre addentrarci in un breve ma necessario excursus per meglio inquadrare il fenomeno Tamiya nell’ambito del kit in plastica, essendo la casa delle due stelle un’entità abbastanza diversa anche dalle sue cugine giapponesi: negli anni settanta i kit in plastica erano di fatto relativi o a grossi giocattoli privi per loro stessa filosofia di qualsivoglia vera velleità collezionistica, oppure a modelloni più o meno motorizzati aventi un fine più o meno smaccatamente ludico.

Tamiya fu la prima casa che, pur senza smarcarsi immediatamente dalle motorizzazioni (vedasi modelli come la Ferrari 312 B o, andando ancora più indietro, la Lotus 49 o la Honda RA273) iniziò a curare moltissimo il lato relativo alla fedeltà di riproduzione, ottenendone quasi immediatamente dei capolavori in scala.

Iniziò poi il filone delle moto, con la scala 1:6 che venne poi affiancata dalla scala 1:12 (di fatto introdotta da Tamiya, primo modello la Yamaha 500 di Kenny Roberts Senior del 1978), con stampi perfetti, relativamente pochi pezzi, ma grandissima nitidezza e fedeltà dei particolari, tutte cose che – almeno in senso stretto – poco o nulla avevano a che fare con la produzione di kit artigianali dell’epoca.

Grandissima importanza per la riuscita di un montaggio di un kit Tamiya risiede nella verniciatura, e sempre più nel corso dei decenni le istruzioni hanno enfatizzato questo step, con un grandissimo numero di colori suggeriti (non è affatto difficile avvicinarsi a venti codici per una moto in scala 1:12 e superare i trenta per una F1 nella stessa scala), che oltretutto vengono spesso e volentieri “mixati” a coppie o a triadi in percentuali degne del Piccolo Chimico Shizuoka Edition, che sfido chiunque a replicare nel proprio piccolo e spesso improvvisato laboratorio di montaggio, ma che se seguite alla lettera (fatto come detto praticamente impossibile) consentono la realizzazione di autentici capolavori, praticamente indistinguibili dai veicoli reali che riproducono.

Ecco, i montati Tamiya della serie Masterwork Collection sono esattamente questo: montaggi da scatola incredibilmente puliti e curati ottenuti seguendo con abnegazione di stampo imperiale le istruzioni della casa.

Nei Masterwork spesso e volentieri non ci sono fotoincisioni, nella misura in cui è proprio la produzione Tamiya a tendere a fare a meno del ritrovato, ma francamente non se ne sente la mancanza, da tanta è la correttezza formale ed esecutiva che trasmettono, assieme all’odore della colla neoprenica che li permea non appena si aprono le confezioni (non bellissime, per la verità) che li contengono.

Sono modelli prodotti secondo logiche abbastanza randomiche, nel senso che non esiste una corrispondenza certa e puntuale tra la scatola di montaggio ed il Masterwork corrispondente, né è dato sapere con esattezza i criteri secondo i quali la casa decide quali Masterwork realizzare: smaltimento di kit invenduti o prodotti in sovrannumero? Modelli dotati di presumibile particolare appeal? Chissà, certo è che le uscite non sono costanti nel tempo né lo sono mai state, e che i costi sono particolarmente importanti.

Di fatto, il montaggio in serie di modelli come questi, presi letteralmente da kit e senza nessun accorgimento preliminare che possa renderli più veloci da montare e rifinire in serie, è estremamente lento e costoso, il che spiega l’esborso medio di cifre che si avvicinano ai 160€ per una moto in scala 1:12, che considerando gli analoghi (e meno belli) modelli Minichamps caratterizzati da un costo praticamente analogo, non è nemmeno eccessivo, ma certamente non può dirsi leggero.

Si tratta di modelli estremamente rari in Italia e molto difficili da capire presso il nostro pubblico, che raramente ha dimostrato di apprezzarli davvero, ma costituiscono un caso a sé stante nel mercato modellistico, e quindi sono più che degni di considerazione ed apprezzamento.

Certamente, delle confezioni efficaci dal punto di vista del trasporto ma brutte e dozzinali dal punto di vista visivo e percettivo non aiutano granché, perché come si sa la prima impressione è quella che conta, anche se bisognerebbe sforzarsi di andare oltre le percezioni di primo acchito.

O almeno, ciò è quello su cui noi di PLIT ci proponiamo di sensibilizzare i nostri lettori, con risultati scarsamente valutabili nell’immediatezza forse, ma che confidiamo possano essere buoni.

5 pensieri riguardo “Tamiya Masterwork

  1. Da fan del grande “Piedone” Andretti, dei Masterwork ho le Lotus 78 e 79, acquistate anni fa presso il sito del Classic Team Lotus, e confermo che effettivamente davanti alla perfezione del montaggio e della verniciatura, si resta davvero senza parole. Ed anche un po’ depressi, constatando l’abisso che separa noi comuni mortali dai montatori di cui si serve la Tamiya, nel caso di quelle Lotus di nazionalità filippina. Peccato solo che, come per le corrispondenti scatole di montaggio, manchino non solo le decal tabaccaie, ma pure quelle della Goodyear, penso per questioni di esclusiva data alla concorrente Hasegawa; per cui – almeno per gli pneumatici, in quanto i modelli si riferiscono ai Gran Premi di Gran Bretagna 1977 e Germania 1978, nei quali le vetture correvano senza le insegne della JPS a causa delle leggi antifumo – si deve per forza ricorrere alle decal aftermarket.

    Gaetano De Marco

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    1. Purtroppo quelle sono mancanze che mi hanno impedito di comprare sia le Lotus sia la Wolf, che manca di altri sponsor per i quali Tamiya non ha i diritti (i giapponesi sono molto rigorosi e neanche infilano di sottecchi le decals mancanti, come fa invece Spark). Il mio primo Masterwork lo comprai nel lontano 2006 da Dreoni a Firenze, ed era la Honda di Spencer, poi stupidamente venduta. Era un modello – anche per me che considero le moto come delle auto malriuscite a cui mancano due ruote – di un fascino unico e di una perfezione che toglieva il respiro. Senza contare l’odore di colla neoprenica e di vernice una volta tolto il modello dalla scatola per una rapida ispezione. In tempi più recenti ho preso a Novegro dal distributore Fantasyland due Mercedes 300 SL e la Lotus di Clark, bellissime. Gli stessi responsabili di Fantasyland mi hanno confermato che i Masterwork non hanno mai attecchito in Italia perché non sono mai stati capiti a fondo.

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  2. Sbaglio, o nella Masterwork Collection erano presenti modelli non esistenti in kit? Ho la McLaren MP4/6 in 1:20 venduta montata, ma non sono sicuro fosse marchiata Masterwork Collection

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