Un’idea di collezionismo

Mini Racing è uno dei marchi storici dell’automodellismo speciale 1:43. Jean-Yves Puillet ha attraversato le varie epoche del settore, iniziando col metallo bianco e riconvertendosi alla resina negli anni ’80. I collezionisti più anziani ricorderanno di certo quelle scatole tipiche dei kit Mini Racing, larghe e piatte.

Puillet è così importante per la storia dell’1:43 che il primo numero di Auto Modélisme, pubblicato nel 1995, uscì con un ampio articolo su di lui. Negli anni successivi, la produzione Mini Racing andò avanti con un buon successo di vendite, anche grazie all’apparizione di alcune linee “parallele” più specifiche, come MVI (che sta per Mini Véhicules Incendie) e Prestige. “He emerged from the blobby era of model making”, usava dire Brian Harvey nel periodo in cui lavoravo per GPM/Four Small Wheels. Era la fine degli anni ’90 e Mini Racing aveva dimostrato come, con un po’ di tecnica e buona volontà, fosse possibile evolversi secondo le richieste del mercato.

Mini Racing è famosa per i kit, ma esiste (o meglio, esisteva) una gamma di factory built, che hanno avuto sempre poca diffusione, destinati per lo più alla Francia e in misura minore all’Inghilterra. Nel corso dei decenni, Mini Racing ha inserito in catalogo centinaia di referenze, riproducendo un po’ tutto, dai prototipi alle GT e Turismo da pista fino alle auto da rally, con soggetti che restano sovente inediti ancora al giorno d’oggi.

Come factory built era possibile procurarsi praticamente ogni modello della produzione in resina, a partire dal catalogo della seconda metà degli anni ’90. Molti di questi modelli venivano realizzati su ordinazione, ma negozi come BAM o GPM ne avevano di tanto in tanto in vendita a prezzi non proprio popolari.

Sì, perché i Mini Racing factory built costavano; era il periodo in cui i resincast non avevano ancora fatto la loro apparizione e costuirsi – che so – una griglia completa di un particolare anno della 24 Ore di Le Mans era impresa alla portata di pochi, sia dal punto di vista pratico (alcuni modelli non esistevano proprio) sia dal punto di vista economico.

I factory built Mini Racing erano sicuramente montati meglio di uno Starter: certo, non è che il dettaglio fosse spinto al massimo. Si trattava di realizzazioni “da scatola”, con gli inevitabili compromessi. Le decals erano sempre sotto trasparente e il livello di finitura restava sempre buono, con montaggi puliti, senza svarioni particolari. La confezione era minimalista: il modello veniva fissato a una normale vetrinetta in plastica, con protezione in cartone bianco e ampia finestratura.

Oggi questi modelli non sono facilissimi da trovare ma vista la loro varietà, i soggetti sono davvero tanti: sono pochi i collezionisti in grado di apprezzarli e valorizzarli a dovere per cui, a parte qualche richiesta fuori misura, le quotazioni restano più che ragionevoli.

Un’alternativa storicamente interessante e sicuramente più “umana” rispetto al mostruoso dilagare di Spark.

4 pensieri riguardo “Un’idea di collezionismo

  1. Ehh già, scatola piatta e larga. Ne ho ancora una quindicina da mondare (e forse la maggior parte resterà così…) tra cui alcune capri(anche resina nella scatola più classica, 917/81, 935 , chevron, mirage m10 ecc. Tutta roba “raccattara” sulla baia e a prezzi più buoni. La resina era ancora decente e facile da montare , ma il metallo necessitava di una discreta preparazione . Ne ho montato qualcuno e il risultato è comunque ottimo, fermo restando che comunque le m9difiche apportate sono importanti.

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    1. Il mio primo Mini Racing in metallo lo montai nel 1985 a 14 anni. Era la Porsche 917 LH Salzburg di Le Mans 1970, quella bianca con le strisce rosse. Mi venne anche abbastanza bene, solo che commisi l’ingenuità di incollare l’acetato con la colla cianoacrilata e mi toccò smontarlo diecimila volte per ripulire i fumi che puntualmente si riformavano all’interno.

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