di Riccardo Fontana
Fine aprile 2020.
È un giorno imprecisato, non ricordo quale fosse con esattezza, ma ne ricordo la sostanza, e non potrò mai più scordarla.
Sono sul letto, ho freddo: non è una sensazione dettata da un’effettiva rigidità del clima, è la morsa della paura che stringe i vasi sanguigni e rende mani e piedi gelidi.
Sono, al pari di altre decine di milioni di persone, appena stato recluso fino a data da destinarsi, ho un lavoro in una piccola azienda provinciale che si fa ogni giorno più incerto e traballante per ovvie ragioni, e ho una relazione, appena cominciata, con una ragazza che vive in un altro stato. Se, in questo momento, sullo Zanichelli cercassimo il termine “disperazione”, probabilmente ci sarebbe scritto “vedi Riccardo Fontana”.
Non esco da giorni, ma che dico giorni, settimane, ma che dico settimane, non esco da quando “l’Avvocato di tutti gli iDalianiH” ci ha rinchiusi in casa per l’emergenza: ho provato ad uscire, a fare la spesa alla Coop sotto casa, ma quelle file bestiali di carrelli fatti entrare col contagocce dal buttafuori mi mettevano ancora più angoscia, così ho deciso di fare una spesa gigantesca e non uscire.
Cerco di non guardare la televisione, non ne posso più di sentirmi dire l’andamento dell’epidemia da improbabili fisici e matematici, da un momento all’altro mi aspetto un cardiologo a dimostrare il Teorema di Stokes su Rai Scuola.
Non posso più tollerare tutti quei grigi deficienti convinti di avere la verità in saccoccia che sparano le loro puttanate su ogni tipo di supporto noto ed ignoto all’uomo: si parla senza remora di confini chiusi da qui all’eternità, o comunque per almeno due anni, e di quarantene di un mese (e perché non di un anno? O di quindici? L’internamento sull’Ile du Diable l’abbiamo considerata?) in entrata e uscita da qui a mai più.
Ripenso a dei ragazzi, evidentemente maturandi, che mi passarono in fianco chiacchierando il giorno prima che Conte optasse per il lockdown: “daiiii, che figata, con un po’ di culo magari non facciamo la maturità!”.
Penso che, quella maledetta maturità, vorrei farla io per tutti loro purché quest’inferno psicosociale finisca immediatamente.
Penso alla voglia di ucciderli che mi, ripensandoci, mi prende come una pantera che mi azzanna la gola: chissà se, a novembre 2022, saranno ancora contenti del lockdown.
Provo a buttarmi sul modellismo, monto una Ferrari 250 GTO della Western Models, in scala 1:24, presa poco prima in un negozio a Parma: mi viene molto bene, ma non l’ho quasi mai più riguardata da allora.
Nei rari momenti in cui guardo i telegiornali, tipicamente quando la sera salgo a mangiare da mia madre, ascolto tutto e il contrario di tutto: membri dell’OMS in grado di dire tutto e il contrario di tutto nel giro di pochi secondi (non mi dilungherò a citare ogni singolo episodio, anche se potrei: sono convinto che non aggiungerebbe nulla, e sono ancora più convinto che anche voi lettori ve ne ricordiate benissimo), servizi sul turismo di prossimità, i box di plexiglass per le spiagge.
Vedo orde di idioti sfornare pizze giorno e notte, ed appendere ovunque quell’insopportabile messaggio cretino che di quel periodo di tregenda fu la cantilena perpetua: “Andrà tutto bene”.
Magari con l’arcobaleno, fatto disegnare ai loro figli, coi pastelli che, con la DAD, non stanno usando.
Sento che la mia psiche sta andando esattamente nella stessa direzione del mondo che mi circonda: in poche parole, a troie.
Di lì a poco avrò un crollo quasi definitivo, tanto che arriverò a considerare caldamente l’idea di licenziarmi e trasferirmi all’estero dalla mia fidanzata, per mai più fare ritorno.
Il tutto, ovviamente, senza lavoro, dovendomi mantenere, e senza praticamente parlare una parola della lingua incriminata (perché di lingue ne parlo parecchie, ma all’epoca col tedesco facevo ancora più fatica di adesso, che un po’ alla Markku Alen ma riesco a farmi capire).
Poi, per fortuna hanno riaperto, prima gradualmente e poi sempre di più, ma la cassa integrazione è continuata ancora per un bel po’: ricordo le prime volte in regime di semi-libertà, a Genova passando per i Giovi, un giro stupidissimo che avrò fatto milioni di volte, vissuto in quel contesto con più pathos che se avessi dovuto raggiungere il Mont Saint Michel da Pavia via routes nationales.
Poi il lavoro che riprende, e dopo due mesi scarsi il delirio che ritorna, durando anche più a lungo della prima volta.
In tutto ciò non ho mai avuto paura di ammalarmi di covid: a quattordici anni ho provato la broncopolmonite, tenendomi la febbre con picchi di 41,7 (!) per quasi una settimana nonostante un bombardamento di antibiotici più che sufficienti a curare una mandria di elefanti, e tossendo ogni giorno delle bottiglie di catarro misto a (parecchio) sangue: quel dolore, che non era da poco, era nulla in confronto al male mentale del mai abbastanza maledetto biennio 2020-2021.
Mi sforzavo di pensare in maniera razionale: dopotutto, anche durante l’epidemia di Spagnola del 1918-1920 si era tornati in tempi più che ragionevoli alla normalità, con percentuali di morti nemmeno paragonabili oltretutto, in quanto di svariati ordini di grandezza superiori in quel caso.
Anche il nome del “nemico contro cui eravamo in guerra” (concetto interessante, vero? La guerra contro un virus, concetti inutilmente militareschi a gogò, quasi a voler pre-irreggimentare una popolazione occidentali “debosciata” da quasi ottant’anni di pace in vista di qualche, pur “improbabile”, futura guerra.
Com’era quella cosa del pensar male?), beh il nome dicevamo: sars-cov 19, in arte “covid”, un nome da film catastrofista di serie C, neanche più i nomi colloquiali che almeno venivano concessi un tempo a dei morbi anche più letali: un tempo si sarebbe chiamata influenza cinese.
Sarebbe cambiato qualcosa? Assolutamente no, ma di occasioni per spersonalizzare e rendere tutto quanto più arido e glaciale possibile non ne perdiamo veramente mai.
Però siamo inclusivi, fluidi, tolleranti verso le felci marziane e gli spinaci di Alpha Centauri.
Maledetti retrogradi oscurantisti e reazionari che non siete altro, tsé…
Perché ho voluto inondarvi con questa tiritera? Anche per un fatto auto-terapeutico forse: non avevo mai condensato tutto questo, ma ora mi sento più leggero, e penso di non essere l’unico ad averla vissuta così male.
Resto convinto che ci sia gente, anche a fronte dei molti suicidi che hanno segnato quel periodo, che se la sia vissuta parecchio peggio.
In fondo, o per la malattia nel caso dei più deboli ed esposti o per “semplice” disagio in tutti gli altri casi, ne siamo tutti usciti vivi per miracolo.