testo di Riccardo Fontana / foto di David Tarallo
La Cina è, in tema automotive, in una fase di espansione estrema: produce di tutto, il resto del mondo gli ha, assai poco furbescamente, delegato la produzione di tutti i componenti cardini di auto e moto (e non solo, di un po’ tutti i manufatti che ci sono indispensabili per condurre la vita come la conosciamo, ma noi siamo petrolhead, e di quello ci occupiamo), e non paghi di esserci tagliati da soli un testicolo “insegnando” ai cinesi il mestiere, stiamo finendo di affilare la mannaia per depauperarci anche l’altro, auto-forzandoci a passare all’elettrico, fatto che verosimilmente metterà la Cina in posizione di monopolio assoluto.
Il pensiero, inevitabilmente, corre all’Ondata Jap cui il mondo ha assistito tra gli anni ’60 e i giorni nostri, in cui cioè le case del Sol Levante hanno invaso il mondo con moto ed automobili di qualità estrema, prestazioni estreme, e un rapporto qualità prezzo inavvicinabile per qualunque competitor del vecchio mondo.
Già, ma è possibile questa onda irrefrenabile si replichi ai giorni nostri?
Ebbene, se il Giappone, con tutte le sue limitazioni di spazio e risorse è stato in grado di cancellare il novanta percento dei “produttori che furono”, verrebbe senz’altro da dire di sì.
Verrebbe, peccato però che l’argomento sia alquanto più complesso di così, e che meriti senza dubbio qualche considerazione, per così dire, “sui massimi sistemi”.
CAPITOLO UNO: LA MENTALITÀ
In primis, le basi della questione: cinesi e giapponesi sono diversi, molto, e si odiano pressoché visceralmente a vicenda.
Soprattutto, hanno un approccio alla vita ed ai problemi inesorabilmente diverso: se i cinesi copiano e tendono a non evolvere il frutto della, per così dire, “ispirazione” che traggono dalle opere altrui, i giapponesi hanno sempre mantenuto un approccio diametralmente opposto: inizialmente copiavano, e pesantemente, quanto l’Europa e gli Stati Uniti avevano da offrire, ma il focus è stato, se non fin dall’inizio da poco dopo, il miglioramento critico dei prodotti di partenza.




Già da questo si può capire come non è affatto detto che si possa assistere ad una nuova ondata gialla nel resto del mondo, ma ogni cosa a suo tempo.
CAPITOLO DUE: LE DUE RUOTE
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone era un allegro cumulo di macerie, esattamente come Italia e Germania, con l’aggravante che, a tratti, si era preso in testa anche qualche bomba atomica, che noi grazie al cielo ci eravamo evitati.
Paese, e pertanto economia, totalmente e tombalmente depressi e da ricostruire, e quindi quale poteva essere la maggiore impellenza per la ripartenza?
Il trasporto.
Ma come fare, date le precarie condizioni socio-economiche?
Con le due ruote, meglio se utilitarie e molto, molto molto economiche.
In questo periodo nacquero un po’ tutte le grandi case nipponiche, che in buona parte già esistevano ed operavano in altri settori (Kawasaki in aviazione e cantieristica navale, Yamaha negli strumenti musicali, Suzuki nel tessile, e Honda, con un altro nome, come fornitore di componentistica per la Toyota) ma che solo in questi anni si dedicarono alla motorizzazione.
La Honda Motor Company, ufficialmente fondata da Soichiro Honda nel 1948, iniziò costruendo una copia fedele e dichiarata del Ducati Cucciolo 48 (curioso, vero? Come cambiano i rapporti di forza…). Che fu nota come “Dream A”, e via via tutti gli altri si diedero alla costruzione di semplici due tempi utilitari, senza eccessive pretese, e tutti di chiara ispirazione europea.
Ben presto però si manifestò il carattere votato alla crescita ed alla competizione dei Giapponesi, ed il precursore fu ancora una volta Honda-San, che a fine 1957 acquistò alcune delle migliori moto da Gran Premio italiane fresche di dismissione, come le Mondial 125 Bialbero ed alcune MV Agusta, le fece chiudere in robuste casse di legno, e le fece pervenire all’attenzione dei suoi migliori tecnici ad Hamamatsu, tra cui un suo omonimo che, pur senza fregiarsi dei galloni di ingegnere era destinato, come spesso è capitato, a fare la Storia della tecnica: Soichiro Irimajiri.
Irimajiri-San studiò e ristudiò, e da quei gioielli della tecnica italiana seppe estrapolare, assieme al suo team di lavoro, delle autentiche astronavi: c’erano 50 bicilindrici 4T ad otto valvole, 125 cinque cilindri in linea, 250 sei cilindri, e se non fossero cambiati i regolamenti del Motomondiale c’era già un prototipo di una 500 V12 pronto per i primi collaudi (da cui nacque il primo motore Honda di F1, di palesissima estrazione motociclistica, ma ogni storia a suo tempo).
Le Honda dominarono, arrivando all’apogeo nel 1966, quando tutti i titoli costruttori dalla 50 alla 500 furono totale dominio della casa dell’Ala Dorata, ma gli altri costruttori jap non furono mai da meno: Suzuki e Yamaha, tra luminari del due tempi espatriati dalla DDR nascosti nei bagagliai delle Trabant (Ernst Degner, che col frutto del suo lavoro riuscì anche a laurearsi campione del mondo, con la Suzuki 50 nel 1962) ed esperienza sugli strumenti musicali riversata a profusione sul motore a due tempi (la Yamaha) fecero totale incetta di record e vittorie.
A questo punto, fatta l’esperienza, non rimaneva che riversarla nella produzione, e più ancora che nelle corse, dove giocoforza si parlava si di tecnica superiore ma elitaria per sua stessa definizione, fu su quel campo che si decisero le sorti della supremazia motociclistica mondiale nei decenni a venire.
Cominciò la Kawasaki, con un tre cilindri due tempi noto ufficialmente come “500 Mach III” ed ufficiosamente come “Bara Volante” o “Widows Maker” nei paesi anglofoni, un mezzo spaventoso per prestazioni (praticamente paragonabili alle 500 da Gran Premio) ed anche per “mascolinità”, e Yamaha e Suzuki non tardarono molto ad offrire le loro interpretazioni in tema di due tempi sportivo, la prima con la Serie RD e la seconda con il Titan 500 (ricordate la moto viola con cui Sebastian Vettel si presentava ai GP verso il 2018? Ecco, esattamente quella).
Già, ma la Honda?
La Honda era già il più grande costruttore di motori al mondo, ma sostanzialmente produceva delle copie migliorate, ridotte, e più affidabili delle bicilindriche inglesi allora tanto in voga.

Nulla di estremo, nulla di clamoroso, e soprattutto nulla che facesse intravedere un travaso di know-how dalle corse alla strada.
Nulla, fino a quando debuttò la CB750 “Four”, la prima quattro cilindri di serie al mondo.
Quello fu il vero punto di rottura, e di non ritorno per l’Europa: il CB750 “Four” era poco o nulla dissimile da una moto da gran premio, però era contraddistinta da una affidabilità estrema, da una fruibilità eccezionale, e da una durevolezza sconosciuta a qualunque inglese, tedesca o americana: al giorno d’oggi, dopo oltre cinquant’anni, vi sono esemplari mai restaurati che hanno raggiunto e superato il mezzo milione di km senza sostanziali revisioni.
La Kawasaki ci mise pochissimo a seguire l’esempio, e nel 1972 sfornò la Z1 900, una specie di Honda Four estremizzata, che divenne a sua volta una pietra miliare.
Da quel momento il dado fu inesorabilmente tratto: le moto giapponesi si diffusero a macchia d’olio, impadronendosi più o meno lentamente ma inesorabilmente di ogni singola branca di mercato, dal Motocross alle supersportive nulla fu tralasciato, e nuovi segmenti vennero inventati. O reinventati.
La Yamaha, ad esempio, reinventò il morente ed antiquato concetto di Scrambler, quando nel 1976 lanciò la XT 500, la dominatrice delle prime Parigi-Dakar, che i francesi ancora oggi chiamano “La Moto Mytho”: l’idea alla base dell’XT era, né più né meno, quella che aveva dato origine alla Ducati Scrambler o alla BSA Victor 441, bellissime moto ma inaffidabili, e poco fruibili, mentre l’XT 500 non si rompeva neanche se presa a martellate, si accendeva relativamente facilmente (in confronto alle altre di cui sopra) e vibrava poco.
Dicevamo del “vizio” nipponico di rivedere e correggere le idee altrui, ed eccone un fulgido esempio, ed in questo le maestranze cinesi sembrano ancora sideralmente lontane.
Con la trasformazione della motocicletta da mezzo utilitario a mezzo ludico-ricreativo, e dopo la conquista totale del mercato mondiale, i tempi erano maturi per replicare lo schema raddoppiando il numero di ruote, anche se il processo era già in marcia da anni.
CAPITOLO TRE: LE AUTO
E venne l’ora delle automobili.
Il Giappone è stato, inizialmente, molto particolare in tema di automobili: concentrato sulle auto piccole ed assai chiuso verso i prodotti stranieri (il governo giapponese stipulò un patto con lo stato italiano negli anni ’50 che potremmo definire di “non aggressione”, per limitare l’importazione della 500 nei suoi confini e favorire i suoi produttori nazionali e viceversa. Questo patto è all’origine dei dazi doganali e del contingentamento che durò, in Italia, fino a fine anni ’80), fu da sempre contraddistinto da una legislazione che limitava le dimensioni e le potenze dei veicoli in vendita, rendendoli di fatto appetibili solo sul mercato interno.
La Honda, sempre lei, iniziò a farsi conoscere nel mondo a metà anni ’60, tanto per cambiare, debuttando nelle competizioni, e facendolo dalla porta principale, quella della Formula Uno.


Eccentrica fino al limite dell’anacronismo, ma comunque potente e con l’aura dell’armata tecnologica, che non l’avrebbe mai abbandonata, la Honda intesa come costruttore non replicò mai i successi che ebbe nel motomondiale, ma si fece conoscere e sfrutto le corse come ottima vetrina per lanciare una campagna d’invasione nel mondo dell’automobile di serie.
L’occasione venne col lancio della Civic, nel 1972: moderna, veloce, qualitativamente estrema, bella, la Civic divenne immediatamente un best seller negli Stati Uniti e pressoché in tutti i paesi dove veniva importata, diventando negli anni la Regina delle hatchback sportive, con le versioni VTI e Type R.
Pensiamo, ad esempio, al 1989, e facciamo un semplice paragone: la rinomatissima Alfa Romeo come “top” di gamma delle “piccole” aveva ancora l’Alfasud Sprint (allora nota solo come Sprint), la Honda aveva la Civic VTI 1.6 da… 160 CV.
100 CV/litro su una piccola berlinetta di serie, raffinatissima in tutti i minimi particolari, non si erano ancora mai visti, e fu davvero un salto epocale, che perdurò negli anni.




Dopo la Civic (ma in certi casi anche prima) comparvero altri nomi destinati a fare la Storia dell’automobilismo, dalle Toyota Corolla, Celica e Supra alle Datsun (poi Nissan) 240Z, Skyline, Sunny e molte altre.
Arrivarono sui mercati europei altri costruttori inizialmente meno noti, come Subaru e Mitsubishi, che non tardarono a mettersi in mostra ed a guadagnarsi il rispetto degli appassionati e dei normali automobilisti.
Come sempre, i concetti originari, dall’utilitaria alla coupé al 4×4 da lavoro, furono rivisitati e migliorati dalle maestranze giapponesi, fino a diventare pressoché inattaccabili.

Quanta strada è stata fatta da quelle prime moto della Honda che venivano vendute in saldo nei supermarket americani a metà anni ’50, né più né meno come gli scooterini cinesi che oggi si trovano al Bennet o all’Iper, ma la differenza tra Giappone e Cina, riassumendo all’estremo, è tutta in questo: dopo meno di dieci anni la Honda era passata dal vendere delle brutte copie di moto inglesi nei supermercati a vincere il GP di Monza di Formula Uno davanti a Brabham e Ferrari, gli scooterini cinesi… Dopo oltre vent’anni dalla loro comparsa nei supermercati nostrani sono ancora esattamente li al loro posto, tra il banco del pesce e quello del pane.
E da lì, a meno di cataclismi di mentalità, sarà ben dura che si schiodino.
Ciao a tutti.
Ottimo articolo. Riguardo ad esso, però, vorrei dire questo: Non è che i cinesi hanno capito che ci stiamo impoverendo mese dopo mese (e non da ora) e che quindi non conviene cambiare mentalità visto che i loro prodotti saremo presto “costretti” a comprarli, giocoforza? Della serie: “Poca spesa e tanta resa”. Ciao a tutti.
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Dipende. Se si pensa alla produzione di massa probabilmente sì. Ma se si danno per buone certe proiezioni che vorranno un generale impoverimento delle classi medie (con relativa sparizione), i cinesi saranno i nuovi produttori del lusso per i pochi ricchi. Prodotti di lusso che ovviamente non avranno niente a che vedere con ciò che viene fatto in Europa, ma saranno comunque piazzati in un range “alto” per costare molto. Il lusso sarà percepito non tanto come qualità ma come esclusività.
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Nel 1989 la 33 aveva preso il posto della Alfasud, mutuandone parte della meccanica, razionalizzata in alcuni aspetti.
Essendo stato felice proprietario di una Civic, nel lontano 1991, posso testimoniare la sostanziale differenza di qualità (sotto tutti i punti di vista) rispetto alla produzione europea più blasonata
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Ho avuto due Civic VTI (prima e seconda serie) e due Type-R (prima e seconda serie) e a confronto le tanto osannate Alfa Romeo 145 Quadrifoglio o come cavolo si chiamavano sembravano dei camion. Per non parlare della ridicola Delta II 2.0.
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Errore Alfonso: si, la 33 è uscita nell’83 (ma poteva tranquillamente stare dentro, non è che l’avremmo rimpianta), ma nell’89 a listino c’era ancora la cosiddetta Alfa Romeo Sprint, ovvero la vecchia Alfasud Sprint Coupé, che era la punta di diamante delle sportivine piccine picciò dell’INCA (no, Alfa Romeo non la posso chiamare quella roba lì, perdonatemi).
C’era quindi, c’era c’era, eccome.
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Hai ragione Riccardo, chiedo venia.
Mi sono fermato ad Alfasud e mi si è “chiusa la vena”, non verso di te, beninteso…ricordi familiari
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Ma figurati Alfonso, probabilmente il paragone era cannato, la Sprint andava parametrizzata alla CRX, non tanto alla Civic vera e propria.
Sarebbe un parallelo ancora più temerario probabilmente, ma sarebbe più lineare.
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