di Riccardo Fontana
“Incominciai a rendermi conto che non era più solo una corsa. Questa era qualcosa di più grande e impegnativo: era la battaglia della razza umana contro tutto quanto la sua mente aveva saputo inventare. Tutto ciò che l’Uomo aveva fatto con il cervello e le mani stava cospirando per ucciderlo: le auto che aveva costruito, le strade che aveva tracciato, le case, i muretti, i ponti.
Continuammo senza mai alzare il piede.”
Questa dichiarazione, forse tra le più evocative che la Storia del Motorsport ricordi, la fece Denis Jenkinson appena terminata la Mille Miglia del 1955, che vinse a tempo di record come copilota di Stirling Moss.
È veramente un qualcosa che dà i brividi, e soprattutto lo fa il distacco che se ne evince in termini di rapporto con il rischio e la morte che avevano i piloti di quell’epoca.
E, in realtà, anche di epoche successive e, forse, nonostante misure di sicurezza modello-ufo e le insopportabili mise da fighetti leopardati, hanno ancora oggi nel 2023.
Già, ma era davvero distacco o, assai più serenamente, consapevolezza della quadratura celeste? Com’è possibile essere così apparentemente fortunati da poter fare una vita da sogno – perché resti chiaro che quella è una vita da sogno, l’unica che possa essere definita tale assieme a quella di Rocco Siffredi – e darle così poco peso?
Incoscienza? Probabilmente no: paradossalmente, direi posatezza, e consapevolezza della propria fortuna.
Innanzitutto, occorre interrogarsi su cosa sia la vita, e su cosa ognuno di noi desideri farne: in questo siamo tutti diversi, a volte anche di parecchio, ma esistono certi punti fermi su cui forse vale la pena soffermarsi.
In primis, noi poveri “peones” ordinari abbiamo delle priorità che sono, per usare un gigantesco eufemismo, deprimenti.
Pensateci: il cosiddetto rappresentante del ceto medio, che poi sarebbero uno cui viene data l’illusione di stare bene ma che in realtà, dentro la capoccia, sta peggio di un qualunque membro del ceto umile, che priorità ha? Lavorare fortissimamente fregando il vicino di scrivania, spesso facendo un lavoro che gli fa schifo e facendolo a 100 km da casa, solo per pagare le bollette, la rata della macchina, il mutuo della casa, e per fare due regali alla mogliettina del Mulino Bianco che, a sua sola insaputa in tutto il quartiere, si intrattiene carnalmente col macellaio da un paio d’anni.
Si alza alle sei del mattino, dopo due ore di coda arriva a Milano alla fabbrica di tapparelle o di graffette dove lavora come vice-responsabile dell’ufficio sinistri, beve ottantasei caffè, al terzo infarto del pomeriggio gli consentono di andare a casa, dopo altre due ore ci arriva, mangia la zuppetta con la macellaia in bigodini e… Dorme. Secco. Cosa diavolo vuoi fare dopo una giornata così, andare a far maranza?
È forse questa una vita appagante, una vita da tenersi stretta?
Se, ad un diretto interessato, questo discorso lo si fa “live”, parte il solito messaggio pre-registrato dalla segreteria telefonica del cervello, che recita “ma comunque io sono un privilegiato, tanti altri questa vita se la sognano”.
Oh assolutamente sì, come pure tanti altri, sognandosela, si svegliano tutti sudati e non riescono più a prendere sonno.
Penso a me stesso per una volta, non scrivo mai aneddoti personali ma stavolta devo: quando avevo diciotto anni, facevo Enduro assiduamente, e rispetto agli altri ragazzini che giravano con me andavo parecchio forte. Mio padre, che pure mi aveva reso il demente invasato di motori che sono, non mi ha mai lasciato correre: diceva che guidavo senza testa (piante non ne ho mai abbracciate e a rompermi un ossicino ho dovuto aspettare fino ai trent’anni) e che l’importante nella vita era non diventare un monito per gli altri.
“Diventare un monito per gli altri” era la costruzione “alta” del più prosaico “ammazzarti, così da diventare un messaggio alla prudenza per gli altri”.
È un discorso assai condivisibile se visto con gli occhi di un genitore, peraltro parecchio affettuoso, com’è stato il mio amatissimo Vecchio, e non gliene ho mai voluto, nemmeno all’epoca.
Il fatto, però, è che lui, che a 14 anni sognava di diventare un meccanico da corsa, morì poco dopo, a nove mesi dalla pensione, dopo una vita come tecnico informatico all’IBM, e morì in un letto d’ospedale, abbastanza male tra l’altro.
Visse, si levò degli sfizi certo, ma fu sempre una vita ingiustamente castrata e castrante.
“Diventare un monito”, dicevamo.
I piloti fanno il loro, e quando capita che si ammazzino facendo ciò che vogliono, giovani, in piena salute, spensierati e godendo di una vita che per noi poveri scemi non è quasi nemmeno sognabile: a me lascia perplesso l’uomo della strada che parla della “Tragedia di Guidizzolo”, primo per i motivi sopraelencati, e secondo perché, nella sua insensatezza, non pensa ai bambini (poveri contadini, tra l’altro) falciati dalla Ferrari del Marchese De Portago per i quali veramente avrebbe senso, e molto, parlare di “Tragedia”, no, parla proprio della morte dei due piloti, Alfonso De Portago ed Eddy Nelson.
Alfonso De Portago aveva, alla Mille Miglia del ’57, 28 anni: era un pari di Spagna, girava senza bagaglio per seguire i suoi affari, non aveva nemmeno idea di quanti soldi potesse avere ma, comunque, ne aveva cento volte di più di quanti riuscisse a spenderne (ed era uno che riusciva a spenderne tantissimi).
Era pieno di donne: l’ultima sua foto in vita lo ritrae al controllo orario di Roma, seduto nella Ferrari 335, mentre bacia appassionatamente Linda Christian, famosa e splendida attrice dell’epoca e madre di Romina Power.
“The kiss of Death” la chiamarono quella foto, e finì anche sul Times.
Edmond Gurner Nelson era il suo amico-tuttofare, di fatto alle dipendenze del Marchese, e anche per questo se la passava benissimo, come il suo “principale”.
Capite? Peppino il fabbrica-chiodi di Usmate Velate, che morirà in completa solitudine a novant’anni in un ospizio per non-autosufficienti, che dà dei poveri sfigati a due così.
Per come sono io, meglio trenta o quarant’anni bruciando al triplo della velocità che novanta tra tapparelle in plastica e Temptation Island: farò ciò che devo.
Tutti dovremmo farlo, prima che sia troppo tardi.
“Salvate il soldato Ryan” è un film di genere bellico, pluripremiato, dallo stile piuttosto asciutto e molto diretto, quasi crudo.
Dura due ore e quarantanove minuti (ho cercato) ed ha il suo culmine quando l’ex soldato Ryan, ormai anziano, visita il cimitero militare e, colto dal senso di colpa per i compagni morti per portarlo in salvo, domanda ai familiari, che lo accompagnano, se ne sia valsa la pena, se lui abbia meritato il loro sacrificio, si sia comportato bene nella vita.
E forse la risposta è proprio questa…
Dovremmo vivere una vita piena, per rispetto di tutte quelle persone che non avuto la fortuna o il tempo per poterlo fare.
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È proprio così.
Il tempo fugge, e le possibilità con lui.
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