Sprint Race

di Riccardo Fontana

Siamo nell’epoca delle Sprint Race, sia per le due che per le quattro ruote, e non sono coinvolte solo MotoGP e Formula Uno, no, i Rally sono allo stesso livello – con le famose Power Stages – e la Superbike anche, con le Superpole Races.

L’Enduro è, tanto per cambiare, la stessa storia: prologhi notturni con ostacoli artificiali e punteggi-extra dati ai primi classificati di questi dubbi eventi mediatici.

Tutto deve essere estremizzato, spettacolarizzato, accelerato ma al contempo semplificato nelle dinamiche, fatto a misura di un mondo di rincoglioniti plasmati ad immagine e somiglianza di TikTok, impossibilitati a mantenere un livello di attenzione accettabile oltre i dodici secondi: si ricerca la “fiammata” di spettacolarità, per destare una soglia di attenzione narcotizzata da decenni di sonno della ragione.

Poi ci si lamenta della pericolosità di questi improbabili nuovi format, con la MotoGP che sembra un campo di Marte di zoppi e convalescenti e la F1 che è diventata un videogioco per ricchi figli di industriali.

Data l’aria che tira, che l’Endurance stia vivendo l’era d’oro che – contro ogni previsione e speranza – sta vivendo, ha del miracoloso.

Forse il livello e l’età dei fruitori di gare di durata e GT sono maggiori, o forse è solo che in tanti – troppi – non guardano le gare, limitandosi a seguirle sui social, quando capita di farlo o, meglio ancora, a giochi già esauriti.

Siamo sempre più usa e getta: mangiamo low-cost (e questo sul deficit d’attenzione ha le sue responsabilità) corriamo come dei matti per lavori usa e getta, per dei lavori stupidi – da impiegati di basso livello – per svolgere i quali ci viene inculcato un “agonismo” che nulla ha da invidiare a quella di un pilota, con contratti a breve termine, proprio come se fossimo degli sportivi.

Tutto si è così estremizzato da rendere la vita ordinaria ancora più alienante di quanto già non lo sia di suo, che è molto: è così che accanto a Marquez che fa il buffone e ne stende cinque o sei alla volta in MotoGP, in un “qualunque” ufficio abbiamo il quasi sessantenne prossimo alla pensione che si mette in competizione col trentenne neo-arrivato per paura che il giovane gli freghi la carriera che non ha mai fatto e non farà mai, manco fosse Hamilton che si trova in casa Russell: due teste di cazzo fatte e finite, sia il vecchio che si comporta così che il giovane, che non trova il coraggio di fare l’ombrello a tutti e di andare a fare il barbone.

La tristezza estrema di fare gli “squali da pozzanghera”, un male capitale della nostra società.

Ed energy drink, energy drink ovunque, come se piovesse, massima adrenalina nel minimo tempo…

L’indirizzo che viviamo – o subiamo – ce lo siamo voluto in una vita e mezza di porcherie auto-inflitte, dalla fiducia ossessivamente data a politicanti tele-imbonitori all’assuefazione mentale che ci siamo auto-inflitti con i social, sempre più minimalisti, sempre più soporiferi per l’intelligenza: siamo arrivati all’assurdo di uno YouTube in decadenza in quanto deputato alla condivisione di contenuti troppo lunghi ed articolati, con la sua Sprint Race (TikTok) in crescita esponenziale ed apparentemente sfrenata, il tutto passando per Instagram che è stato lo step intermedio.

Se l’ISIS ha seguito i Talebani, temo all’idea di cosa seguirà TikTok.

Temo l’idea di cosa seguirà le Sprint Race: probabilmente tra vent’anni faremo i campionati del mondo in prova unica, incentrati sulle partenze al semaforo.

Con auto e moto elettriche, probabilmente.

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