Tarquinio Provini e la Protar, parte 2

Testo e documentazione di Riccardo Fontana. Redazione David Tarallo

Ci eravamo lasciati nel primo episodio (link https://pitlaneitalia.com/2022/11/19/tarquinio-provini-e-la-protar/) con l’incidente di Tarquinio Provini al Tourist Trophy del 1966, che rischierà di lasciarlo paralizzato e porrà la parola fine alla sua carriera da pilota, lasciandogli però tutto il tempo di dedicarsi al suo “hobby”: la Protar.
È proprio a partire dal 1966 che iniziano ad uscire, in numeri sempre più cospicui, delle scatole di montaggio sempre più dettagliate delle Regine delle corse, sempre nella classica scala 1:9, fin dagli albori una insostituibile bandiera di casa Provini.
Con ritmi degni di una Starter di metà anni ’80, iniziarono ad uscire una dopo l’altra delle moto leggendarie, riprodotte fin nei minimi particolari anche a livello meccanico, e ci furono anche i primi tentativi di una intelligente diversificazione dei soggetti per ammortizzare i costi, ma di questo parleremo tra poco.
Lo abbiamo già anticipato nella prima puntata, ma è forse nella narrazione di questo periodo che il quesito si fa più annoso, e quindi vale la pena tornarci: come facessero, il buon Tarquinio e i suoi collaboratori, a sapere come fossero fatte così tanto nel dettaglio, le meccaniche di moto come le Honda 6 cilindri di Mike Hailwood, e le Yamaha V4 a dischi rotanti di Bill Ivy e Phil Read, per non parlare degli “zanzarini” come la Suzuki 50 bicilindrica (14 marce, 17 CV, più di 220 km/h, ed eravamo nel 1967) del “Domatore di Pulci”, Hans-Georg Anscheidt, lo sanno solo loro, ma visto che è ormai risaputo che all’epoca fosse difficilissimo fotografare i motori e i telai “nudi”, e che ci fossero solo pochissime foto, in bianco e nero e spesso incomplete su Motociclismo o Cycle World, l’alto artigianato di cui si sono resi partecipi questi uomini nel pensare e produrre queste meravigliose (e tutt’oggi ricercatissime) scatole rimarrà ben scolpito negli annali del modellismo, perché fare un curbside fedele di un’auto è già molto difficile, pensate abbinarci anche tutto il resto della meccanica (e che meccanica) in quelle condizioni.

Ho menzionato i mezzi giapponesi perché, per complicazione, fascino e livello di segretezza erano al top, ma ciò non vuol dire che “noi” fossimo tanto diversi: il Conte Domenico Agusta era ossessionato dal riserbo, e riuscire anche solo a guardare i suoi motori era difficilissimo, perché dopo qualche secondo, immancabilmente, arrivavano Arturo Magni o qualcuno dei suoi a scacciare il curioso di turno, ed a redarguire l’incauto meccanico che aveva lasciato esposta la moto senza carenatura alla mercé della prima “spia” che passasse.
D’altronde, per quanto l’Agusta fosse un colosso industriale, battagliare con la Honda era molto difficile, e nessuno voleva dare a chicchessia nemmeno il benché minimo vantaggio.

Yamaha 250 RD 56, Campione del Mondo 250 1964-’65 con Phil Read


A tal proposito, mi si conceda un piccolo fuori-tema solo per inquadrare i tempi: anni fa, molti in realtà perché ero ancora alle medie, sfogliavo dei vecchi numeri di Motociclismo di mio padre, che nel ’67 era già uso da anni di privarsi del panino per impiegare i soldi che gli davano i miei nonni per comprare ora Motociclismo, ora Autosprint, ora Auto Italiana. Ebbene, arrivai a sfogliare il numero di Motociclismo appena successivo al GP di Monza del ’67, con Gran Premio e titolo della 500 vinti di misura da Giacomo Agostini con l’MV su Mike Hailwood con la Honda: un trafiletto diceva “onore al merito alla piccola e temeraria casa giapponese, capace di sfidare a viso aperto un colosso come l’Agusta, certamente molto più grande di lei”.

…un altro Yamaha RD 56, splendidamente dettagliato e montato ai giorni nostri: è praticamente indistinguibile da una moto vera, impressionante!


La Honda al 1967 era già il primo costruttore di motori al mondo da svariati anni, e aveva le risorse per comprare l’intero gruppo Agusta e adibirlo a fare motori ausiliari, ma noi, in Italia, per tutta una serie di ragioni, non lo sapevamo o facevamo finta di non saperlo.
Segretezza o meno, i modelli Protar furono sempre contraddistinti da una accuratezza mirabile: l’MV 3 cilindri era lei, come certamente “lui” era il suo motore, e con gli anni, quando i collezionisti hanno cominciato a “svestire” sempre più volentieri le moto a beneficio di riviste e pagine web, si è potuto apprezzarlo assai più di quanto non fosse possibile allora.

La vera RD 56 in una foto di repertorio Yamaha: come si vede chiaramente, la fedeltà del modello Protar è sbalorditiva


Vista l’eterogeneità dell’allora Continental Circus, che prevedeva moltissime classi diverse ma a volte simili tra loro, fu un gioco da ragazzi per la Protar produrre diverse versioni della stessa scatola “cambiando” solo la cilindrata: fu così che, dalla Honda 250 RC 166 6 cilindri nacque la RC 174 che corse (e vinse) la Classe 350 nel 1967, che esternamente, come nella realtà, differiva dalla sorella solo per il colore delle tabelle portanumero, blu per lei, e verdi per la 250.

Honda RC 166 250, Campione del Mondo 250 1966-’67 con Mike Hailwood: uno dei più grandi sound della storia del Motorsport, zona rossa oltre i 24000 giri (con le valvole richiamate da molle)


L’MV Agusta 3 cilindri 350 seguì a ruota l’esempio, e fu di fatto una scatola di una 500 con i trasferibili dei numeri blu invece che gialli, mentre altre volte si fece qualche leggera modifica alle sovrastrutture (carenature, codoni) per ricavare moto solo leggermente diverse da modelli pre-esistenti, e fu ad esempio il caso della Benelli 350 4 cilindri del 1968, protagonista di tante epiche battaglie con Renzo Pasolini, assolutamente derivata con pochi abili tocchi dalla 250 che fu, pochi anni prima, uno dei primi modelli di casa Protar.

Quasi nulla venne trascurato: in una logica assai più da casa modellistica contemporanea che da giocattolaio, non ci si fece mai il minimo problema a produrre due modelli che facilmente avrebbero potuto cannibalizzarsi il mercato a vicenda, e fu così che a distanza di un paio di anni videro la luce prima la Yamaha 250 RD 56 bicilindrica di Phil Read, Campionessa del Mondo 1964 e ’65, e poi la 250 RD05, la V4 che vinse con lo stesso Read il Mondiale 1968.

Esternamente erano assai simili, se la carenatura veniva montata l’unico modo per riconoscerle era contare gli “spilli” degli scarichi, eppure per il solo amore del progresso e del modellismo, entrambe ebbero natali e dignità, ed entrambe sono tra gli irrinunciabili degli appassionati.

Ricordiamo per un attimo come quella fosse un’epoca in cui Solido non fece mai, ad esempio, la Ferrari P4 perché la P3 vendeva ancora abbastanza bene da non giustificate un nuovo stampo, e Solido era una realtà parecchio dissimile dalla media dei produttori.

La Protar viaggiava a pieno regime, ma era forse il momento di pensare (anche) ad altro, a qualcosa di ancora più temerario: l’automobile.
Di come venne affrontato il tema, e di come proseguì questa bella avventura, parleremo nelle prossime puntate.

Foto di apertura: un nugolo di MV Agusta 3 Cilindri 350 (tabelle blu) e 500 (tabelle gialle), ottimamente ricavate da kit Protar.

5 pensieri riguardo “Tarquinio Provini e la Protar, parte 2

  1. Con le pluricilindriche non mi sono mai cimentato, ma anche assemblare biella/ spinotto / pistone della Kreidler Van Veen 50 era un lavoro che comportava molto self-control, visto e considerato che nessuno poteva andare a guardare dentro il motore…

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  2. L’argomento “motori con meccanica interna” (e non solo motori, ma ci arriveremo) pensavo di toccarlo la prossima volta, comunque è un altro aspetto particolarmente gustoso del fenomeno Protar, che univa la fedeltà ad un aspetto ludico-educativo non da poco: sospensioni funzionanti, a volte catena funzionante (allucinante, da montare è la cosa più simile all’ottava piaga d’Egitto che possa venirmi in mente), e spesso albero motore, biella/e, pistone/i e spinotto/i.
    Io ho montato una sola moto con la meccanica interna, il CZ 250 da cross del 1971, poi in realtà avrei fatto anche l’MV 3 Cilindri 500, ma era Italeri, e le istruzioni non prevedevano il montaggio dei pezzi nel motore.
    Trovandomeli sulle sprue, li assemblai a parte e li conservai, ho tutt’oggi albero motore, bielle e pistoni dell’MV di Agostini sull’ultimo ripiano della libreria.
    Era un modo per insegnare ai ragazzi com’è fatto un motore, anche perché, con pieno disinteresse della facilità di montaggio, i particolari ricalcavano in noni le fattezze di forcelle e bielle bere.
    C’era da diventare idioti, ma erano bellissime e alla fine ti facevi da solo anche la tua di moto, quella vera, ed anzi magari la trovavi pure più facile, perché era a grandezza naturale e non c’era niente che non combaciasse già.

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    1. La CZ 250 l’avevo messa insieme (assemblata o montata sono parole grosse!) nell’estate ’74 con mio cugino (con una “g” sola) da cui ero in villeggiatura. Siccome mia nonna non era dell’idea che andassimo in giro in motorino a 13 e 11 anni in assenza di altro e più energico custode, avevamo sfogato la fregola da due ruote con la Protar. Ma l’imbiellaggio della Van Veen era ben altra piccolezza (e, con tutto il rispetto per il Marchio, le tolleranze potevano essere positive o negative: un pistone montato con interferenza, per esempio…)

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  3. Gli accoppiamenti nei Protar sono sempre stati alquanto aleatori.
    Quando costruii il Suzuki 50, sul fondo della scatola rimase un dito di limatura di plastica, che avevo dovuto eliminare anche solo per fare tornare il minimo indispensabile il modello.
    Erano a tutti gli effetti dei modelli speciali, come fossero degli Starter di plastica e a tema motociclistico.

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  4. Ieri mattina, fra le altre cose, sono andato a ritirare un kit della Starter che un amico mi aveva messo da parte.
    Vado pazzo per i kit di questa marca.
    Scocca e fondino erano malamente verniciati quindi, appena arrivato a casa, mi sono messo a sverniciarli ed ora ho delle bellissime unghie decorate…
    Riuscito nell’impresa non da poco (c’erano posati diversi micron di una vernice sconosciuta) sono arrivato alla nuda resina dove, nelle parti inferiori della scocca e del fondino, vi sono evidenti chiazze di stucco, messo lì per turare varie falle.
    Visto che anche io mi diletto nello stampare, a livello amatoriale, qualche kit, sono stato sollevato dalla visione di questi (tanti) difetti.
    Tanto per dire che ogni percorso modellistico è comunque fatto di errori e tentativi non sempre riusciti, anche per i “migliori”, cose che servono a formare l’esperienza, dato che nessuno “nasce imparato”.

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