testo e foto di Riccardo Fontana
Ci fu un tempo in cui il collezionismo, vuoi per la carenza di modelli disponibili sul mercato, era meno rigido e ripiegato su se stesso di quanto non sia oggi, dove tutti collezionano solo 1:43, solo 1:24, solo Ferrari, solo F.1 o solo Spark.
Una volta c’era un po’ di tutto nelle vetrine (o, forse, sui ripiani) dei collezionisti, dai Mercury di appena finita la guerra a qualche 1:24 o più, e magari a qualche elaborazione personale, una varietà insomma dal gusto un po’ rustico ed incolto di cui ai giorni nostri si è un po’ perso il gusto.
Tra i modelli “irrinunciabili” della metà degli anni settanta c’erano appunto due Alfa Romeo in scala 1:25 della Mebetoys, particolarmente belle e fedeli, che riproducevano due autentici miti del motorsport nazionale: la P2 e l’Alfetta 159.
I modelli si presentavano piuttosto eleganti, ben rifiniti, e con un’aristocratica basetta in finto legno riportante marchio Alfa e nome del modello su fondo oro, e per i loro tempi erano davvero il top assoluto della fedeltà storica e dell’esattezza: chi avrebbe potuto, con la documentazione pressoché nulla del 1973, riprodurre così bene un’auto come la P2 – che tra i due modelli è certamente il più particolare e ricco di charme – di quasi cinquant’anni prima?
La C.I.J. in effetti lo aveva fatto altrettanto bene (in scala molto più grande) ai tempi della P2 vera, ma per costo e declinazione d’uso si trattava di un modello assai più “nobile”, contrariamente al Mebetoys che è, a tutti gli effetti, un modello da medio-alta borghesia ma comunque ampiamente “avvicinabile”.
La P2
Dove risiede oggi il fascino di un modello come questo? In primis nell’evocazione del mito futurista della velocità che gli deriva dall’auto che riproduce: l’Alfa Romeo P2 non era solo un’auto da corsa, è stato il vero incipit del motorsport italiano, e questo nonostante alla sua comparsa ci fosse già la Fiat, da cui lo stesso Vittorio Jano che della P2 fu il padre proveniva, sulla breccia da parecchi anni.
Il richiamo al mito ruspante degli anni ruggenti delle corse, delle sfide impossibili dell’uomo contro la macchina, della nascita di tutto.
Guardando questa P2 non posso che immaginarmela al Portello, dove a metà anni settanta c’era ancora l’ufficio tecnico, magari sulla scrivania di qualche altro papavero assieme all’Alfetta 159 e a qualche Togi, oppure… Mi immagino un sabato mattina a Maranello, Enzo Ferrari che torna dal barbiere a piedi, e camminando la vede in una vetrina.
Si ferma, sta lì per un attimo a scrutarla da dietro gli occhiali neri, ripensa forse al gran rifiuto prima del GP di Lione, che pur doveva vederlo al via.
E l’Alfa Romeo, Vittorio Jano, la nascita della Scuderia… Accenna un sorriso e torna ad incamminarsi verso la fabbrica.
Dissolvenza…




Gli appassionati all’epoca acquistavano i modelli per le loro qualità, per le innovazioni tecnologiche che incorporavano, per la loro ricercatezza, non per riempire una casella.
Posso azzardare perché il valore del denaro e il costo dei modelli erano ben diversi da quelli attuali, o forse, azzardo ancora, era un modo diverso di valutare le cose, più profondo e meno consumistico.
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Il modello, di per lui, dovrebbe essere la cosa più personale e leggera che ci possa essere, dovrebbe cioè per sua stessa natura essere vissuto in modo più profondo e consumistico.
Se invece diventa un’ansia di riempire la casella e, peggio, un modo di “spandere letame”, beh… Qualcosa non va.
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Le mie prime frequentazioni di ambienti modellistici risalgono alla fine degli anni settanta, quando la mostra di Dreoni era a Firenze uno degli appuntamenti più importanti dell’anno se non il più importante. Ero praticamente un bambino, ma ricordo perfettamente come i tempi fossero molto più lenti e dilatati rispetto a oggi. Credo di averlo già raccontato diverse altre volte: usciva un modello atteso da tempo, qualcuno riusciva a comprarlo, si iniziava a spargere la voce, si favoleggiava di questa o quella caratteristica rivoluzionaria (ruote a raggi? fotoincisioni? parti tornite?), poi il modello spuntava fuori a casa di qualcuno o in un negozio e allora tutti lì il sabato pomeriggio a osservare il kit, a commentarlo, a suggerire come montare quel pezzo o quell’altro, come verniciarlo, come rifinirlo al meglio. Passavano settimane, a volte mesi. Era bello anche aspettare, anzi spesso era l’essenza della passione.
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…dicevi “versione” e ti mettevi a pensare a un transkit che magari non aveva mai varcato i confini francesi, inglesi o belgi. Ne parlavo con Riccardo proprio oggi pomeriggio, a proposito delle gare. Tutto si scolpiva meglio nella memoria individuale o nell’immaginario collettivo di comunità piccole o grandi. Tornando al modellismo, ricordo quando uscì il kit della Porsche 356A di Bosica. Arrivò il numero di AutoModelli con la recensione scritta da Mario Barteletti (Bosica era andato personalmente a Roma a trovarlo portandosene dietro un esemplare), e poi via via l’eccitazione montante nell’attesa che Tron o altri lo avessero disponibile. Cose indimenticabili che per fortuna oggi possiamo almeno in parte recuperare cercando modelli del passato o raccontandoci questi episodi fra di noi.
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Sì, il tempo trascorreva più lentamente e l’ attesa delle novità era vissuta molto più intensamente. Soprattutto per l’età, ma anche perché preparare un nuovo modello era, o sembrava, più impegnativo, meno “banale” di oggi.
Mi riferisco a un periodo antecedente, ma conoscevo a memoria tutti o quasi gli 1/43 usciti, compresi i loro numeri di catalogo. Adesso non conosco più nemmeno i marchi…
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In riferimento alle due Alfa di Mebetoys, fissato com’ ero con le vecchie GP e con l’1/43, provai una certa delusione quando uscirono, era una grande occasione “sprecata “.
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Io penso a certi modelli degli anni sessanta o dei primi anni settanta, ricchi di aperture e di parti mobili (su tutti i Corgi della serie James Bond).
Quanto ingegno!
E che stampi (io ne ho aperto più di uno) favolosi!
Vogliamo parlare della plastica e del metallo capaci di resistere ai giochi dei bambini di allora, oltre che al trascorrere del tempo?
Oggi si predilige la quantità
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A proposito dei tecnici Mettoy La progettazione dei tre movimenti principali dell’Aston Martin di James Bond, tetto apribile, mitragliatrici anteriori e scudo posteriore, fu sviluppata contemporaneamente da tre team diversi di progettisti, con gli immaginabili problemi di coordinamento, ma il modellino fu pronto nei tempi previsti.
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Oggi abbiamo il 3d!
Però la DB5 di Minichamps funziona in modo pietoso
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